Un altro giorno

27 Mar

Viene giù acqua da un cielo basso come un controsoffitto, grigio come un muro di cemento. Viene giù acqua sulla strada e le bestemmie volano in cielo, leggere come sospiri.
L’asfalto bagnato riflette le luci tremolanti delle auto e dei semafori.
Osserva il flusso di persone che si forma quando l’autobus si ferma, apre le porte, le richiude e riparte.
È fradicio dalla testa ai piedi, ma non sente alcun freddo. Ha smesso di sentire qualsiasi cosa da un bel pezzo.
Le pozzanghere straripano fino a creare corsi d’acqua scura, le foglie secche galleggiano, altre volano via.
La primavera è stata spazzata via in un istante. La temperatura è scesa, il morale anche.
È fermo da una decina di minuti sotto ad un palazzo, conta gli spicci che gli sono rimasti per andare avanti.
Che sono comunque molti di più, rispetto alla voglia residua, di andare avanti.
La musica arriva da una finestra aperta, facendogli venire solo una gran sete, quella sete che l’acqua non cura.
Quella sete che si cura solo col vino rosso della mescita di Alfonso. Che si cura a bicchieri di vodka liscia, fino a sentire il bruciore che dallo stomaco scalda quel residuo di anima rimasta.
I volti delle persone sono cancelli chiusi, che ogni tanto si aprono in sorrisi sospettosi, in sguardi arcigni, in occhiate maliziose o in espressioni apertamente ostli.
Il suo volto è una maschera. Quella che dice che va tutto sempre bene, che niente e nessuno scalfirà questa pace manifesta.
Le sue parole sono trattenute, come i pensieri, arginati dietro muri spessi ed alti.
Le frasi che scrive in sequenza, si rincorrono cercando uno sbocco, ma non arrivano mai da nessuna parte. Perché da nessuna parte devono arrivare.
L’acqua continua a cadere.
Una fila di topi grassi e inzaccherati passa poco lontano da lui, percorrendo un marciapiedi e scomparendo dietro cumuli di foglie raccolte dal vento.
Le auto sono parcheggiate una sull’altra, una vecchietta si arrampica quasi, per potere salire sul marciapiedi, incastrandosi con buste della spesa e scatole di colombe pasquali.
È una sporca vecchia città, piena di gente vecchia e sporca.
E lui è lì, fermo come il monumento meno visitato del mondo, ad aspettare che smetta.
Sperando segretamente che non smetta mai più. Quel cielo color cemento, basso come un controsoffitto, è perfetto così com’è. Perfetto per un umore come questo.
Ci si scalda a bicchieri di vino rosso, fino a sentire il bruciore quando si va a pisciare in piena notte. Ci si dimentica di tutto.
La notte soprattutto.
Ci si dimentica di dormire ogni notte in un letto vuoto.
Anche se non ci si muove mai dal proprio posto. Forse proprio per non rendersi conto che quel letto è vuoto.
Le gocce cadono più leggere ora, ci si passa quasi attraverso.
Una sigaretta accesa col mozzicone della precedente, tenuta all’angolo sinistro della bocca, con l’occhio un po’ socchiuso, mentre si fa altro con le mani. Come cercare di aggiustarsi i panni fradici addosso.
Panni bagnati e freddi. Da sentire sulla pelle per dimenticare il calore. Per cancellare il calore sentito al contatto con altra pelle.
Pensieri bagnati e freddi, come le mani ghiacciate che raccolgono da terra una moneta, solo per fare testa o croce.
Testa ancora un giorno, croce ancora una vita.
Era un gioco stupido e senza senso.
Ma usciva sempre testa.
Ancora un giorno, solo uno.
Per poi ritrovarsi a domandare al destino:
-quanto ancora?
Solo un altro giorno ancora. Ogni cazzo di maledetto giorno.
Se fosse uscito croce avrebbe smesso di fare quel gioco e si sarebbe messo l’anima in pace una volta per tutte.
-per quanto ancora?
-ancora per tutta la vita.
E sarebbe stata una risposta definitiva in qualche modo.
Qualcuno gli ripeteva spesso che aveva bisogno di conferme. Forse non aveva più bisogno di niente altro che pioggia battente.
Rumore di fondo e scrosci d’acqua improvvisi. Tuoni lontani, buoni per spaventare i cuccioli. Buoni per tenersi pronti ad un destino che cade sempre dall’alto. Come una bomba lanciata da un aereo.
Quella pioggia e quella sete feroce. Quella pioggia e quella voglia di sdraiarsi a terra e farsi scorrere addosso il tempo e le persone.
Quella pioggia e quelle immagini inutili, appartenenti ad un passato che non esisteva talmente più da fare dubitare fosse mai esistito.
Questo relitto tenuto in piedi da alcool e rancore diffuso un tempo era stato altro, aveva creduto in altro e dimostrato altro.
Ora era solo un alunno svogliato intento a cancellare dalla lavagna una ad una, le cento frasi ripetute che ha dovuto scrivere per punizione.
Piano smette di piovere e si alza un vento gelido, che lo colpisce in pieno.
Inizia a camminare come avesse appena scoperto di avere le gambe, inizia a muoversi, rigido come un congegno da oliare. Ed è proprio quello che ha intenzione di fare.
Andrà ad ingrassare gli ingranaggi a vino rosso e sigarette. Almeno fino a che non sentirà qualcosa di simile alla fame.
Allora poi penserà a qualcosa altro da fare. Un pezzo per volta, anche oggi finirà.
Poi sarebbe arrivato un altro giorno.
Solo un altro giorno ancora.

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