Archivio | 9:32 PM

Circle line

21 Mar

Sudava freddo, aveva lo sguardo concentrato sul nulla e sudava freddo.
Ogni due minuti infilava una mano in tasca per controllare qualcosa.
Il vagone della metro era mezzo vuoto, c’erano un paio di tipi seduti di fianco a lui ed uno solo nella fila di fronte.
Ad un tratto estrae un mazzetto di banconote e inizia a contare, concitato.
Lo osservo e mentalmente arrivo a contare assieme a lui, almeno una decina di migliaia di euro.
Tanto mi basta.
Provo a capacitarmi del perché uno si arrischi a tirare fuori tanti contanti su un vagone dei mezzi pubblici, ma ormai la decisione l’ho presa.
So dove sono, e quindi non fatico ad immaginare da dove arrivino quei soldi, un prestito probabilmente, fatto ad uno a cui hanno regalato la cravatta più stretta del mondo. Così stretta che potrebbe staccarti la testa di netto dal collo.
Cerco di stabilire una sorta di piano strategico, sapendo che i vagoni e le stazioni sono gremite di telecamere.
Posso solo aspettare che scenda e seguirlo, sperando che non ci sia nessuno ad attenderlo fuori.
È alto, magro e con una faccia da coglione incredibile. Una sorta di preda naturale, in grado di fare diventare predatore anche il più innocuo degli erbivori.
Attraversiamo la città, da un capo all’altro. Siamo partiti da Cinecittà più o meno, ora siamo dalle parti di Primavalle.
Arriva la sua fermata, si avvicina alle porte, il vagone si ferma, scende ed io dietro di lui.
Lo seguo defilato, come ho imparato dai film, sempre un paio di persone tra me e lui, senza mai accelerare il passo. Mi fermo addirittura due volte per fare finta di allacciarmi le scarpe. Che porto tutte con l’allacciatura fissa, e le infilo come moderni mocassini.
Sta per salire le scale mobili. Siamo io e lui.
Arrivo da dietro e lo tiro per il collo, strattonandolo con forza. Cade a terra con gli occhi sgranati.
Gli mollo due cazzottoni in faccia e gli dico buonanotte.
Perde i sensi in un attimo. Gli metto le mani in tasca e prendo i soldi. Poi mi metto a scendere la scala mobile al contrario pensando solo che ho risolto un sacco di cazzi.
Potrò dare una bella somma alla mamma delle mie figlie e tenerne un po’ per me.
Scendo le scale controsenso. Sono in un tunnel di paura, fretta, eccitazione e certezza che tutto finirà male.
Continuo a pensare alle videocamere sparse ovunque. Però penso pure che nessuno potrà denunciare sti soldi. Anche se l’ultimo dei miei problemi saranno le guardie.
Penso più a un gruppo di inanellati rotti in culo con i giaguari di ceramica all’ingresso, pronti a strapparmi pezzi di cuoio capelluto pur di farmi dire dove ho messo la pecunia.
Mi faccio un film dietro l’altro.
Arrivo sulla banchina diretta ad Anagnina. Spero che il tipo non si riprenda in tempo per crearmi problemi.
Avrei dovuto dargli un paio di calci in testa finché era a terra.
Tant’è che sono qui, il prossimo treno arriva tra tre minuti. Lunghi come tre decadi.
Cammino su e giù. Mi nascondo dietro quelle colonne su cui mi hanno spaccato il sopracciglio a 15 anni.
Sento il vento che si forma nelle gallerie quando il treno sta per giungere in stazione.
Resto nascosto. Il treno si ferma.
Mi affaccio, non c’è nessuno.
Salgo di corsa e comincio a camminare verso il fondo dei vagoni.
Sudo copiosamente.
Tanto.
Tremo. Gocce di sudore ghiacciato mi scendono lungo la schiena. Lungo i fianchi.
Vorrei telefonare a mia madre.
Vorrei telefonare a lei, solo per sentire quell’accento così lontano dal romano da mettermi pace nel cuore ogni volta.
Invece non faccio niente del genere.
Conto a ritroso le fermate. Scenderò a Re di Roma, passerò sotto la casa dove ho vissuto per tanti anni, dove vivono le ragazze e la loro mamma.
Gli lascerò la metà del denaro.
Poi mi fermerò al bar.
Quello davanti al portone.
Mi prenderò una sbornia come dio comanda.
Ma sono ancora così lontano che non credo davvero di arrivare da nessuna parte.
Per un momento penso di uscire all’aperto qui dove sono, piazzale degli Eroi, e prendere un taxi.
Ma una strana parsimonia mi pervade.
Ci sono giusto un paio di tipi seduti a fianco a me ed uno solo di fronte.
Ad un tratto decido di tirare fuori la mazzetta di soldi e mi metto a contare nervosamente.
Diecimila cinquecento.
Avevo visto giusto.
Ho la strana sensazione di essere osservato.
In fondo sono un tipo dinoccolato, lungo e secco. Ed ho una faccia da coglione rara, in grado di trasformare in predatore anche il più pacifico degli erbivori…

Domande e risposte

21 Mar

L’amore è la sola risposta. Peccato che nessuno abbia fatto la domanda.
Me ne sto sdraiato sul divano dopo una passeggiata, ho sonno e non mi sento benissimo.
Non ho dormito granché stanotte. Mi sono svegliato con il solito senso di vuoto interiore e vescica piena.
Se tutte le insoddisfazioni della vita si potessero risolvere con una pisciata di certo avrei la prostata infiammata.
Fortunatamente no.
Uno strano senso di allegria a cui non sono per niente abituato, mi pervade.
Ho visto il sorriso più bello del mondo oggi, e sapere che in qualche modo sono stato io a scatenarlo mi dà un senso di ebbrezza che nemmeno tu sei in grado di abbattere.
Il cielo di Roma in primavera ha un fascino tutto suo, invidio il turista che lo vede per la prima volta. A meno che non abbia preso un autobus sbagliato e si sia ritrovato ad ammirarlo in qualche angolo sperduto, circondato da fattoni di crack pronti a spolparlo.
Io me lo guardo dal divano. La casa profuma di fresco, dopo che ho passato una mattina nervosa a fare lavatrici e lavare i pavimenti.
Sono un perfetto casalingo, cucino, lavo e asciugo come mia zia.
Che non si farebbe per non cedere alle paludi del pensiero.
Ho un leggero mal di testa.
Alfonso, il tizio della mescita dove mi servo regolarmente mi dice che si sente un po’ in colpa.
Sono stato cattivo: ho chiesto l’età degli avventori.
Molti sono più giovani di me.
In generale se li vedeste su un mezzo pubblico vi alzereste per cedere il posto.
Mi ha chiesto l’età.
Gli ho detto lascia stare.
Continuano a chiamarmi ragazzo. Potrei essere nonno.
La genetica non va mai indagata, solo sfidata apertamente, cosa che faccio da tanti di quegli anni che ormai dovrei averla vinta a tavolino.
Non ho mai fatto sport. Qualcuno si sorprende. Si sorprenderebbe di più se mi vedesse cimentarmi in una qualsiasi disciplina. La coordinazione di una busta dell’immondizia ed il fiato di un palloncino sgonfio.
Ciononostante l’apparenza inganna.
Ed io inganno l’apparenza.
Sono giorni di riflessione. Profonda riflessione. Sono quasi sul punto di arrivare ad una soluzione. Peccato che poi il Montepulciano mi faccia addormentare.
E quando mi sveglio col sapore di sconfitta devo ricominciare da capo.
Ma non credere che questo significhi salvezza: nessuno uscirà vivo da qui, come diceva uno più saggio, più gaggio e più fortunato di me.
Il cuore lo abbiamo messo in un surgelatore, sperando che ammazzi tutti quei batteri che lo stanno mangiando.
C’è solo il sole nel cielo e la solitudine nel salotto. E non è detto che sia per forza una brutta cosa.
Le mie parole spesso non significano molto più di quello che sono: parole in fila. Messe perché suonano bene.
Messe perché mi aiutano a togliermi tutti quei pezzetti di sentimento malato dai molari digrignanti.
Messe perché non ho molto altro da fare.
Fuori fa caldo, dentro fa freddo.
Non solo in senso letterale.
Ho un freddo dentro che nessun abbraccio potrà sciogliere.
E di abbracci non ne voglio, a meno che non siano inzuppati nel latte.
Perché ho troppo tempo per stare ad elucubrare, e nessuna voglia di spiegare le mie elucubrazioni.
Ho provato una volta a spiegare le mie vele al vento, non le ha capite neanche lui, ed ha smesso improvvisamente di soffiare.
Lasciandomi alla deriva.
Senza acqua, senza cibo.
Ho pensato: bene, questa è la volta buona.
Ma un cazzo di peschereccio mi ha trascinato di nuovo in porto dicendomi sei salvo amico.
Il sorriso più maligno del mondo si è palesato su questa faccia da cazzo che porto in giro.
Ho detto grazie, e poi ho aggiunto, scandito:
-Ar cazzo.
Nuvole di cotone e cielo azzurro, uccelli in volo, buona musica.
Lo stesso che c’era sopra Dachau in aprile.
Ma con meno ottimismo di fondo.
Se adesso avessi a disposizione il destino lo farei ubriacare e poi, una volta svenuto, gli poggerei un cuscino sulla faccia e mi ci metterei seduto sopra.
Ad aspettare l’ultima contrazione prima dell’ultimo, fatale, battito cardiaco.
Poi uscirei in strada a dare a tutti il lieto evento:
-Ho fatto fuori il destino, signore e signori, non ce n’è più per nessuno.
L’amore è la sola risposta, peccato non riesca a ricordare la domanda.
Che non farei mai più, dovessi vivere un altro milione di anni.
Mi terrei stretto solo questo senso di disfatta e disinteresse. Di assoluta e totale mancanza di entusiasmo e di voglia.
Mi hanno chiesto se non potrebbe essere depressione.
Alla depressione hanno fatto la stessa domanda all’inverso:
-Ma non potrebbe essere Gianluca?
Pare sia scoppiata a piangere e poi abbia iniziato a mangiare nervosamente.
Se questa è depressione io sono Napoleone.
Adesso però devo prepararmi, ho un appuntamento a Waterloo.
A risentirci.