Ciuf ciuf

17 Apr

Il treno lento ha iniziato il suo viaggio, dalla città del Colosseo a quella della Torre.
Attraversa le valli, costeggia il mare, osserva le colline, che per riguardo chiudono gli occhi.
Fermerà ad ogni stazione, ad ogni frazione, in ogni comune. Raccoglierà e scaricherà storie, legate a persone di ogni dove.
Storie allegre, storie tristi, storie noiose, altre avvincenti, nessuna che mi riguardi in alcun modo.
Guardo fuori, ho dimenticato il libro e odio guardare il telefono troppo a lungo, così mi limito a osservare un paesaggio di campi coltivati e blocchi di case basse qui e là.
La campagna, i tralicci, i ruscelli verdi, i pannelli solari, le grosse macchine agricole, i filari, la linea elettrica, vecchi casali abbandonati, un sole timido che mi segue da casa. Le somiglianze che ho intorno, che questa musica nelle orecchie rende così evocative e toccanti.
Passo attraverso posti che sono stati importanti, o in cui ho passato momenti che ricordo ancora come umilianti.
La campagna scorre al mio fianco come l’acqua di un ruscello, i pensieri seguono la corrente come pesci affamati.
Le curve sinuose delle colline sembrano quelle su cui ho sospirato a lungo.
Il cielo piatto mi riporta alla realtà.
Una realtà con i denti, che morde e lascia segni profondi.
Freddo come il marmo delle cave qui intorno.
Entro ed esco dalle gallerie e dalle vite delle persone, cerco di non lasciare impronte, o di lasciarle al contrario, in modo da non potere essere seguito.
Perché non so neanche io dove sto andando.
E non vorrei che qualcun altro si perdesse dietro a me.
La rotaia ed il treno producono questo suono identico da sempre, come il battito di un cuore di ghisa e vapore, di acciaio e livore, di legno e rancore.
La vita corre in questo treno, con tutte le sue delusioni e sogni ed illusioni sopravvissute alla pioggia ed al sole, al ghiaccio ed alla notte scura e piena di stupore.
Sento questo suono da quando sono venuto al mondo tra fiume e ferrovia, in mezzo una strada, una lingua nera che porta fino al mare.
Il suono delle rotaie attraversate dal treno.
Il suono del fiume che scivola nel suo letto, e che è inesorabile, come la sabbia che scorre lungo una clessidra.
Si può sdraiare una clessidra per illudersi di fermare il tempo, si può arginare un fiume ed alterarne il percorso, ma non si può fare altro che deviare quell’acqua che da millenni scorre lungo la sua strada, lungo la via che paziente ha trovato, perché le è impossibile stagnare, in quanto corrente.
Sono nato tra queste tre verità assolute: il fiume, la strada e la rotaia. Era impossibile che restassi fermo a stagnare.
Era scritto che dovessi mettermi in cammino e che mai avrei pensato di essere giunto a destinazione.
Perché è inciso nella pietra della mia conoscenza, che la vita è un percorso da fare a piedi, con soste brevi e lunghe, forzate e decise, ma che l’arrivo non lo decideremo noi, ma chi scriverà il nostro epitaffio.
Qui, finalmente, giace.
Il tempo di riprendere fiato.

Sono perso in queste elucubrazioni mentre osservo fuori, l’ordinata campagna toscana, pulita ed elegante, e ad un tratto mi passa vicino un’ombra. È un trolley che viaggia leggero. Così leggero che il propietario non c’è. Si fa il corridoio tra i sedili. Io e una ragazza ci guardiamo e scoppiamo a ridere.
Poi capitombola, il trolley, giù per le scalette.
Un arabo male in arnese si risveglia da un pisolino di incubi di guerra, e quando sente il tonfo del trolley giù per le scale, si alza di scatto, mi fissa con gli occhi da assassino fuggito da massima sicurezza, e mi chiede, stabuzzando lo sguardo già terrorizzante:
-Chi???
Io lo guardo e all’inizio non so che rispondere.
Poi gli dico non lo so chi, è un trolley, è volato giù per le scale. Credo sia dei cinesi che dormono.
Scendo, recupero il trolley e lo rimetto sul corridoio, l’arabo se ne impossessa, e lo porta vittorioso al proprietario.
Che lo ringrazia caldamente.
Mentre risalgo noto che i cinesi sono quattro.
Tre dormono, uno non ha mai smesso di mangiare, da Roma Termini a qui, che siamo tipo a Cecina, o simili.
Non ha un bagaglio, ma un frigo della Smeg con dentro un all you can eat.
Mi guardo intorno, so che devo scendere tra poco, è una bella giornata, ed alla stazione ci sarà il sole più forte ancora.
Mi basterà uscire, andare a destra e poi tornare indietro e poi a sinistra.
Col sorriso di un ragazzino, dipinto sulla faccia da schiaffi che ho.

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