Archivio | aprile, 2024

Sapienza cinese

27 Apr

Un odore da chiesa psichedelica, quello che ti aspetti di sentire entrando nell’antro di un mago orientale. Un misto di essenze bruciate, vago profumo di oppio, pareti giallo senape, sottofondo di sigaretta spenta. Un divanetto che ha ospitato migliaia di dolori e pesi diversi, bianco sporco, come colore, e forse un po’ anche come sostanza che ne permea il tessuto.
Quando vengo qui è sempre perché sono ridotto male fisicamente.
Una volta sono entrato piegato a libretto, dopo un lavoro infame col più infame degli scenografi, uno che si nutre del sangue dei manovali. Nonostante gli esercizi fatti con costanza e abnegazione, nonostante l’ottima forma raggiunta, nonostante il risolvere ogni dolore con la ginnastica, in quel caso qualcosa si era rotto.
Mentre viaggiavo in metro una ragazza guardandomi mi aveva chiesto se ce la facessi a camminare.
Le ho detto:
-No, ma sto andando dal mago.
Ho fatto 350 metri in venticinque minuti, fermandomi ogni dieci per riprendere fiato.
Sono entrato nell’antro, ho pianto per il dolore dei massaggi, ho amato ogni ago che mi ficcava nei punti nevralgici, ho amato il calore e resistito oltre l’umana possibilità nonostante il mago mi avesse detto chiamami quando senti che bruciano.
Sono uscito da quel posto come nuovo.
Mi ha rimesso in piedi in una seduta.
Huang è il dio in terra del combattere il dolore col dolore.
Ieri sono arrivato col muscolo del polpaccio strappato.
Non so come né perché.
Stavo dando due calci al pallone con mia figlia, con già un dolore persistente da giorni ma sopportabilissimo.
Ad un tratto ho sentito una sassata sul punto esatto che già era dolorante.
Sentito nel senso che ho percepito un oggetto colpirmi, con tanto di tipico rumore.
Un rumore sordo. Un bruciore improvviso.
Da quel momento non ho più potuto poggiare il piede a terra.
La sera il polpaccio era il doppio dell’altro.
Ovviamente qualche giorno prima di partire per un lavoro di un mese tra Potenza e Matera, il primo da caporeparto.
Sottopagato, ma da caporeparto.
Ieri ho capitolato: ho chiamato Huang.
Esco a Lucio Sestio, 350 metri, i soliti.
Passo attraverso piazza dei consoli con l’andatura del reduce di guerra che ha perso entrambe le gambe.
Velocità di crociera cinque metri al minuto.
Il passo è quello che mi padre definiva punto e virgola.
Come il mio vecchio bidello delle elementari.
Gamba sinistra fa il punto, gamba sinistra la virgola, spazzando l’aria intorno a me.
Piede rigorosamente aperto verso l’esterno.
Tum, tap, tum, tap.
Piano piano arrivo allo studio e vengo accolto dal profumo d’oriente.
Huang in mascherina mi fa accomodare e inizia a toccarmi il polpaccio dolorante.
Non urlo per partito preso, ho una discreta sopportazione al dolore ed una timidezza che mi impedisce di manifestarlo.
Ma mi aggrappo al lettino come fosse un vagoncino di quelli delle montagne russe alla curva con avvitamento più pericolosa di tutte.
Tiro fuori l’aria con tanta di quella sofferenza che esce qualche goccia di saliva.
Ti sei strappato il muscolo, mi dice.
Manipola un po’ e poi va di agopuntura.
Per distrarmi mi metto a leggere la sceneggiatura in portoghese che mi hanno inviato.
Mi sanguinano gli occhi.
Poi penso che il film più imbarazzante che ho fatto lo scorso anno al momento è il più visto globalmente su una delle piattaforme più importanti del mondo.
Questo potrebbe essere in lizza per essere il più imbarazzante mai fatto.
Hai visto mai che vince l’Oscar?
Finisce la seduta.
Il dolore è dimezzato.
Non so come faccia.
Ma lo fa.
È la sapienza millenaria credo.
Oppure quegli aghi sono impregnati di qualcosa che non ho mai provato prima.
Mi chiede quando devo partire,
-Lunedì mi vengono a prendere per scendere a Potenza, dico.
-Vabbè cerca di venire pure domani.
Oggi sono di nuovo dal mago.
Altra seduta, dolore ad ogni tocco, gli aghi, che di solito non mi fanno né caldo né freddo, stavolta sembrano andare a infastidire i nervi.
Quando brucia chiamami, mi dice.
Lo faccio, per la prima volta, ben due volte.
-He sì, dice sempre.
Forse per non intaccare quello straccio di parvenza da duro che cerco di mantenere, pur avendo la faccia da bambi nel bosco dopo che la madre è stato ammazzata.
Ora sono qui, con il cerottone verde da sportivo ben tirato lungo la fascia muscolare, e mi pare proprio di stare meglio.
Da adesso devo solo pensare a tutta una serie di altre cose di cui non vi parlerò.
In fondo ci sono pure fatti che devono restare privati.
Almeno fino alla prossima volta in cui deciderò di metterli in pubblica piazza.
Ma sono troppo lucido per farlo, ora.

25 aprile

25 Apr

È il 25 aprile.
La mia liberazione personale ce l’ho ogni mattina quando vado in cesso, per il resto sono schiavo come tutti gli altri.
Schiavo di un sistema a cui non è possibile sottrarsi.
A tutti piace raccontarsi la favola dell’essere padroni delle proprie scelte, ma in realtà siamo padroni solo dei nostri stessi debiti, morali e materiali.
Quando arriverà un esercito a salvarci da un altro penseremo che, finalmente, i buoni sono giunti a prendersi cura di noi.
Ci sembreranno bellissimi e ben nutriti, dallo sguardo dolce e bonario, non come l’esercito di occupazione che hanno appena cacciato, fatto di soldati brutti e cattivi, senza anima né madre,  e ci concederemo felici, poco importerà se un po’ faranno male, penseremo che è un male necessario.
Fino al giorno in cui ci renderemo conto che ad un’occupazione se ne è sostituita un’altra, e niente di più.
La differenza sta nel metodo.
Ed il metodo della nuova occupazione è più morbido, più subdolo, si insinua sottopelle, endovena, si propaga lungo lo scheletro, fino al midollo stesso.
Nessuno libera da nessuno se non ci si libera da soli.
E noi, da soli, non siamo in grado di liberarci da nulla.
Abbiamo tolto le bandiere con le svastiche e i fasci littori, per innalzare quelle con il marchio di McDonald’s, stelle in cielo e strisce sul tavolo a specchio.
Se fossi un po’ meno scettico potrei sfilare in corteo pure io, insieme a tanti altri, allegri e festanti, peccato che di natura non credo nemmeno a quello che vedo allo specchio.
Così come non credo ad una sola parola di quelle che sento e di quelle che dico.
È tutto frutto del momento.
Sarebbe bello non dover parlare, potersi semplicemente trasmettere i pensieri tramite cavetti, le scosse elettriche invierebbero segnali, e nessuno dovrebbe spiegarsi.
Scorgo somiglianze nel modo in cui ci si affida a chi dice di venire a salvarci, ed in quello in cui ci si getta nelle braccia di chi dice di amarci.
La sincerità è un’altra cosa.
Stare bene è un’altra cosa.
Essere liberi è un’altra cosa.
Quel senso di oppressione violenta e repressione cruenta, viene solo sostituito da un senso di oppressione dolce e repressione morbida.
Siamo nati schiavi, schiavi del nostro bisogno di essere accuditi.
Servi delle nostre necessità.
Sordi ai nostri bisogni reali, che spacciamo sempre per sogni adolescenziali.
La mia bandiera è nera, il mio cuore è un buco che ingloba ogni cosa.
Ci vuole troppo coraggio al mondo, per essere soli.
Perché essere soli significa essere padroni del proprio destino.
E non sono molti quelli in grado di farlo.
Io non sono uno di quelli.
Nonostante le mie profonde convinzioni, resto un vigliacco terrorizzato dall’idea di non avere nessuno che mi chiami per augurarmi il buongiorno.
E per questo non mi sono molto simpatico.
Vorrei avere la forza per liberarmi dal male, fosse anche morendo nel tentativo.
Ma non sono nato per essere un eroe.
Sono stato, al massimo, un eroinomane.
Ora sono un signore di mezza età, preda delle sue crisi, e se mi guardo intorno è solo perché spero, sotto sotto, di vedere un bel gruppo di soldati americani, ben nutriti e sorridenti, accorrere per portarmi in salvo, e regalarmi una bella tavoletta di cioccolato.
Mi riempio di belle parole, di pensieri di rivolta, sono i miei partigiani, morti di fame e male in arnese. È la mia resistenza inutile, fatta di staffette in bicicletta che portano ordini nelle varie postazioni, sapendo che ogni mossa è una goccia nel mare.
Fino all’arrivo dei carrarmati alleati, sono lì solo a prendere tempo. E morire tra raffiche e interrogatori.
Ogni notte preparo piani di attacco o difesa, ogni mattina li getto nel fuoco e mi dico che non sono ancora pronto.
Ogni notte sogno di svegliarmi finalmente forte abbastanza, ogni mattina mi sveglio più debole del giorno prima.
È il 25 aprile, festa nazionale.
Si intoneranno canti mentre io metterò su canzoni. Si alzeranno pugni al cielo, mentre io cerco ancora di togliermi le manette dai polsi.
Ascolterò altre belle parole che resteranno soltanto parole, crederò ad ognuna di loro, perché avrò troppa paura di sentire la verità.
Che fa male, lo so.
Nessuno mi può giudicare.
Non peggio di quanto mi giudichi io.
Che sono nato per essere schiavo.
In terra occupata.
Sotto un cielo che non è il mio.
Perché il cielo non è di nessuno, di sicuro di nessuno che conosco.

Cipolla

24 Apr

Ore 05-45 a.m.
Tuoni in lontananza. Pioggia e freddo.
Sono nel letto e mi rigiro come qualche tempo fa.
Un misto di pensieri sconclusionati e ricordi di sogni fatti durante la notte.
Immagini a cascata nella testa.
Mia figlia Eva dorme con me nel lettone. La sento respirare e le carezzo una mano.
È alta un metro e settanta eppure continua a sembrarmi piccola e fragile come quando aveva tre anni.
Anche se mena come un fabbro ed è abituata a prendere cazzotti e calci per lo sport che pratica.
Per me sarà sempre la piccola di casa.
Anche se non sono più parte della casa.
Tra poco suonerà la sua sveglia.
Ho passato una nottata agitata, pensieri uno dietro l’altro.
Mi sento fiero del fatto che non ho cercato la morte cerebrale con vino e gin tonic.
Ma è l’unica cosa di cui mi sento fiero.
Sono incastrato in un loop.
Ma sono un beat che non funziona troppo, chiuso male come la rima di un trapper.
Mi sono perso a guardare foto e tirare somme, con i Velvet Underground di sottofondo.
Ho cercato a lungo qualcosa fino a capire che forse lo avevo già trovato e lasciato andare.
Potrebbe essere che tutta questa lucidità mi stia aiutando a valutare le mie scelte, senza darmi la possibilità di fuggire, tenendomi gli occhi aperti e non a mezz’asta come negli ultimi trent’anni.
Potrebbe dico, perché non lo so.
Ho paura di un sacco di cose, forse è per quello che ho passato tutto questo tempo in stato confusionale.
Il mio amico Cristiano mi diceva sempre di provare, per un po’, a restare lucido abbastanza. Anche solo per fare qualcosa di nuovo.
Devo dargli ragione, dovrò chiamarlo e confessargli questa cosa prima o poi.
Ore 09-11
Le mie twin towers sono crollate miseramente dopo lo schianto dei due aerei che io stesso gli ho indirizzato contro.
Il cielo adesso è azzurro e il sole sembra avere trovato la strada di casa.
Le nuvole torneranno a coprire tutto nel giro di poco, spero solo che non tornino anche a coprire questa luce che adesso mi illumina i pensieri.
Il mio cognome e il mio soprannome ed il nome del blog sono la stessa parola.
Una parola che per quanto la sfogli resta sempre uguale, dalla superficie al cuore. Cipolla. Allium cepa in latino.
Come me che sono uguale, dalla superficie al cuore: un grosso, stupido ed inconcludente uomo di cinquanta anni che ha un sacco di questioni non risolte, e che ha cercato per un po’ di fare finta che tutto andasse bene così.
In realtà è tempo di guardarsi davvero allo specchio e chiedersi:
-A Cipo’, ma te che cazzo vuoi dalla vita?
E magari rispondersi onestamente.
Perché non ho più nemmeno la scusa di essere troppo ubriaco per starci a pensare.
Sono fermo da troppo tempo, in più di un senso. Il lavoro che non riparte, i soldi che non bastano mai, i bisogni che, per quanto si siano ridotti, ci sono e sono impossibili da soddisfare.
La sensazione di stare perdendo tempo, così chiara e presente da lasciarmi ogni giorno più esausto, come olio di motori vecchi e ingolfati.
Oggi ho fumato in due ore più sigarette di quante ne abbia fumate ieri in tutta la giornata.
Emma mi evita ogni volta che può, e non posso dire di non capirla, per quanto mi faccia male ammetterlo.
Sento la voglia evaporare come acqua in ebollizione.
Percepisco il futuro come una minaccia, da tanto di quel tempo che forse potrei anche avere sbagliato i calcoli.
Ogni volta che rileggo uno dei pezzi più vecchi pubblicati sul blog mi sembra di scrivere meglio, ma di avere meno cose da dire.
Talmente focalizzato sul mio stesso ombelico, da non avere nemmeno idea del perché altri dovrebbero avere voglia di leggere.
Non che cambi qualcosa.
Perché tanto scriverei lo stesso.
Per un motivo semplice: devo.
Se riuscissi ad affrontare tutto con il medesimo spirito sarei sicuramente più soddisfatto, più affidabile, più leale ed onesto.
Devo.
Non per imposizione. Per volontà.
Devo.
Con la stessa coscienza di chi ha degli animali da accudire. Un orto da curare.
Devo.
Perché gli animali devono mangiare, sia festa o brutto tempo. E bisogna pulire le stalle, bisogna sistemare la paglia, togliere il letame, controllare che stiano bene.
Devo.
Dissodare il terreno, alternare le coltivazioni, lasciare riposare gli appezzamenti.
Devo.
Così come forse dovrei fare anche altre cose, importanti più dello scrivere.
Parlare con delle persone perché forse è ora.
Schiarirmi le idee perché sicuramente è ora.
Non ho più scusanti.
Sono Cipolla, ho 50 anni suonati, una lunga storia da raccontare o tacere a seconda del contesto, ma impossibile da ignorare, almeno per me.
È tempo che mi ricordi questo semplice fatto, è tempo di tornare a prendersi delle responsabilità, verso me stesso e verso gli altri.
Ho finto che andasse bene come andava, ho smorzato ogni eccesso, nei vizi e nei sentimenti, ho cercato di mantenermi distaccato e distante. Adesso è il momento di guardare in faccia la realtà, senza scuse, senza distrazioni.
Senza fingere che sia una vacanza, accettando quello che mi chiede il mio stesso cervello, che è una sfoglia di cipolla.




Mostri

23 Apr

Voci.
Parole.
Piccole scosse irrefrenabili che rendono l’immagine sfocata. Un moto continuo che è impossibile arrestare.
Nessuno intorno nel raggio di chilometri. Una spiaggia così vasta da sembrare un deserto. Questo è quello che trovo guardandomi dentro. Musica in lontananza, fuochi accesi, i resti di una festa a cui nessuno ha partecipato davvero.
Mostri colorati camminano lenti, con l’aria sognante e l’espressione malinconica dipinta su volti a metà tra l’incubo peggiore ed il sogno più dolce.
Si dirigono verso un mare così lontano da sembrare irraggiungibile.
Voci.
Parole.
Melodie confuse si mescolano al rumore del vento, che soffia violento alzando la sabbia e schiaffeggiando il viso, granelli negli occhi, lacrime improvvise, salate come l’acqua del mare invisibile che so essere da qualche parte, anche se non riesco a vederlo.
Il rumore che sento potrebbe essere quello delle onde, o quello di una radio sintonizzata male.
Un luogo in cui mi piace tornare, sempre più spesso, il luogo in cui riconosco ogni elemento, ogni sensazione, ogni sfumatura.
Lo stesso luogo da cui sono fuggito tempo addietro.
Lo stesso luogo che osservo da lontano, pensando che un giorno vorrei essere lì di nuovo.
I giorni si susseguono senza sosta, numeri in crescita, fino ad azzerarsi e ripartire dall’uno.
Ricordi a cui vengono smussati gli angoli, fino a divenire perfetti.
Un pavimento lastricato di immagini su cui camminare in punta di piedi.
Un giorno cancellerò ogni cosa, senza rimpianti, senza ripensamenti.
Ma quel giorno appare ancora lontano, lontano come questo mare che sento ruggire, senza vedere dove inizia a mangiare la spiaggia.
Continuerò a camminare a piedi nudi, seguendo quei mostri malinconici, tenendomi a distanza per non disturbarli.
Il sapore di sbagli e sbadigli, il suono disturbato di un cuore che batte lento, la stupida sensazione di essere al posto giusto nel momento sbagliato.
Nessuno intorno nel raggio di chilometri.
Nessuno a cui chiedere informazioni.
Posso solo andare avanti, perché indietro non c’è modo di tornare. Perché indietro non so dove sia. Potrei stare girando su me stesso, non lo scoprirò che alla fine del viaggio, quando finalmente avrò i piedi nell’acqua salmastra, e sarò costretto ad arrotolare questi jeans, e tenere le mie scarpe in mano, coi calzini appallottolati dentro.

“Conta er core frate’: se campa d’emozioni
Cerca soluzioni e nun te fa’ problemi”*

Il vello colorato dei mostri si muove nel vento, leggero come zucchero filato, il loro volto triste è nascosto, guardano avanti, un orizzonte occultato dalle loro schiene possenti. Nessuno a cui chiedere aiuto.
Solo un sogno avvolto in carta da spolvero, come un regalo modesto, da aprire al bisogno, quando avrai bisogno di quel poco che ho ancora da dare.
Voci.
Parole.
Un battito d’ali che si confonde con quello di un cuore impazzito, che non è il mio.
Il suono confuso di frasi taciute, pensieri sconnessi, sapori lontani, l’odore che permeava ogni cosa, adesso è nascosto, come l’orizzonte dietro quelle schiene possenti. Sono i miei mostri, li ho cresciuti e curati, alimentati e rinnegati, fino ad affezionarmi, fino a negare la loro esistenza.
Adesso affondo nelle loro stesse orme.
Adesso che sono lucido abbastanza da guardare il film nella sua interezza, fatta di crane e skypanel, di binari e dolly, di trucco e parrucco, di attrezzisti nascosti ad aprire e chiudere porte col filo da pesca, fatta di key set e raccordi, adesso che sono lucido abbastanza scopro che il film è quello che volevo vedere, anche se so già che il finale mi deluderà.

“Conta er core frate’: se campa d’emozioni
Cerca soluzioni e nun te fa’ problemi”*


*Supremo73
Vox Populi
Ma che davero!?

Transformer

22 Apr

Si guarda allo specchio mentre canta perfect day dal Transformer di Lou Reed,
proprio un giorno perfetto, sono felice di averlo passato con te, si dice osservando l’attaccatura dei capelli che si è fatta più rada. You just keep me hangin’ on.
Che è il senso stesso della vita, che si tratti del tempo che si passa con qualcuno o quello che si passa da solo.
Resti in attesa per cortesia. Ancora un po’ di pazienza e la metteremo in contatto con un nostro operatore.

Si versa un bicchiere di vino, accende una sigaretta, prova una certa nostalgia per quella sensazione di disfatta che regalano le sostanze, inalate, tracannate, aspirate.
Sente che molto è cambiato, molto è rimasto uguale.
Bastava smorzare. Bastava chiedere meno o non chiedere affatto.
E tutto si sarebbe risolto, come in effetti si è risolto.
Molti dei colori sono scomparsi, ma non si può pretendere troppo, è l’aspettativa la peggiore nemica della soddisfazione.
È stato un giorno perfetto, privo di scossoni, privo di attese, pieno di quel nulla che a volte riempie, più del tutto che si cerca e non si ottiene mai.
Piccoli passi, come dicono tutti ogni volta che gli domandano come vanno le cose.
Le cose vanno bene.
Se solo si accontentassero di questa risposta, invece di indagare, si risparmierebbero anche questa massima di saggezza da biscotto della fortuna.
Niente di nuovo sotto il sole, anche perché il sole è il grande assente di questa primavera. Niente di nuovo nemmeno sotto questo cielo freddo e minaccioso.
Davvero hai smesso di fumare? gli chiedono quelli che sperano di rimediare qualche dritta per gli acquisti.
Poi delusi gli dicono sei un fenomeno.
Come hai fatto?
Piccoli passi, risponde col sorriso perfido. Con la goccia di sangue e veleno che cola dal canino.
Piccoli passi.
Forse perché non era stata una decisione, solo una serie di sfortunate coincidenze.
Che alla fine aveva deciso di volgere a proprio beneficio.
L’importante era ricordare che al mondo nulla è definitivo. E nemmeno troppo sincero.
Recitare a braccio, come gli attori di teatro popolare del secolo scorso.
Seguire una linea vaga, e non decretare mai nulla.
Perché nulla dura più di un’infatuazione, più di un’emozione passeggera.
Era stato un giorno perfetto, come sarebbe passata la notte era da vedere, inutile fare programmi impossibili da rispettare.
Per ora si accontenta di starsene seduto su questo divano, su cui ha avuto conversazioni di vario genere, con varie persone, con speranze diverse, facce diverse, toni diversi, incomprensioni diverse.
Non c’è più il profumo che gli dava alla testa, ma nemmeno l’odore di chiuso di quando è arrivato qui, due anni fa.
Da un’altra storia, un’altra vita, un’altra aspettativa.
Da quando c’erano certezze solide come montagne, ad ora che ha solo cumuli di sabbia spostati dal vento, intorno.
Il profilo dell’orizzonte che cambia ad ogni refolo, il tempo che passa e gli passa accanto e che sembra ignorarlo.
Non gli fa più nessun effetto avere il futuro scritto sul bagnasciuga, anzi, gli regala un certo senso di calore e sicurezza.
Perché quando non c’è più nulla da perdere c’è solo tutto da guadagnare. Come direbbe un qualsiasi imbonitore da social media.
Ed in fondo potrebbe essere vero.
Di certo c’è il fatto che adesso non c’è nulla da salvare. Il che garantisce le mani libere, nel caso ci si debba reggere agli appositi sostegni, in caso di frenata brusca.
Un giorno perfetto, lungo il giusto, senza scossoni, senza nulla che opprima il diaframma, senza tremori, senza il cuore che salta in controtempo.
Perché se deve essere così, così sia.
Sono troppo vecchio per questa merda, come avrebbe detto un qualsiasi personaggio cinematografico di almeno dieci anni più giovane di lui.
È stato un bel viaggio, che lo ha portato fino a qui, ad osservare questo mare freddo, questi tronchi portati dalla corrente, che ha asciugato ogni lacrima, tolto ogni dolore. È stato un bel viaggio e non è finito per niente, è solo cambiata la prospettiva da cui osservare il paesaggio.
Molto è sparito lungo il tragitto, molto si è trasformato, nulla è fatto per restare.
E lui di certo, rispetto a quanto si è fatto, è un miracolo che sia rimasto qui a elucubrare, distrattamente di sera, sorseggiando vino anziché tracannando super alcolici in attesa di svenire
Sente addirittura il sonno arrivare, in forma di sbadigli e occhi lucidi, senza commozione, senza pensieri accessori, senza nostalgie inutili.
Un giorno perfetto, e sono felice di averlo passato con te, canticchia mentre si osserva riflesso in una lama aperta per caso, sul suo tavolo multicolore.
Perché non c’è altro da fare, da dire, pensare, obiettare o domandare.
Solo un’altra sigaretta da accendere mentre l’aria si fa fredda, la notte scende e reclama il suo spazio di silenzio interrotto da motori e voci alterate.
Non c’è niente da chiedere e nessun dio a cui farlo.
Non c’è preghiera né poesia, né bestemmia né canzone, tutto è chiuso in una mano che scrive e scrive.
Una mano che ha smesso di chiedere al cuore cosa pensa, ed un cuore che ha smesso di pensare.
Ha scritto tutte le canzoni che doveva, ora è tempo di ascoltare canzoni scritte da altri, e gustarsi la dolcezza del nulla che gli provocano.
Senza nemmeno stare a domandarsi come mai, non gli provochino nulla.
Perché così è che deve essere, e così sia.
Ha sempre saputo che bisogna stare attenti a ciò che si chiede nelle proprie preghiere, perché potrebbe avverarsi.
È stato un giorno perfetto. Sono felice di averlo passato con te.

I’m on Fire

19 Apr

Ave Maria piena di grazia il signore è con te tu sei benedetta tra le donne benedetto il frutto del seno tuo Gesù… Senza pause, monocorde, privo di accento ed inflessione.
Dove la preghiera incontra il mantra, e l’uno con l’altra si spiegano le reciproche esistenze.
Il mondo moderno ed il mondo antico sopravvivono, in una linea di confine neutrale.
Sono così vecchio che ho visto al cinema”Amici miei atto secondo”.
Insieme a mio padre quando ero bambino.
Io cammino su quella linea immaginaria, quel confine tra presente e passato.
Tra foto in bianco e nero e calzoni a campana, e doppio taglio e barba lunga.
Tra la Roma di Falcao e quella di Mancini, tra le lacrime di Pertini e le smorfie della Meloni.
Sono un testimone ed a mia volta una testimonianza, del tempo che passa e che segna, come un debitore abituale.
Il tempo che è fermo e che incide, come un vandalo con la chiave, sulla fiancata di un’auto nuova.
Ho visto e vedo e, forse, vedrò ancora, questi giorni cambiare restando uguali.
Pigri, come orsi appena usciti dal letargo, scoordinati come bambini piccoli alle prese con dei passi di danza.
Ho guardato ed ho voltato lo sguardo da un’altra parte, ho vissuto ed ho finto di morire, per poi rinascere, se non più forte, almeno cicatrizzato, come uno squarcio di quelli che pensi che non si rimargineranno mai più. Ed un giorno di colpo ti svegli ed il sangue, ha smesso di uscire.
Arriverà il momento in cui, guardando quella linea dove i lembi di tessuto si sono congiunti insieme dopo lo strappo, non ricorderai come ti sei ferito.
O almeno dimenticherai il dolore che hai provato.
Tutto è passeggero, niente è nato per restare.
Siamo solo acqua che scorre lungo percorsi, troviamo la via, scavando la superficie, aggirando gli ostacoli, deviando il tragitto.
Troviamo la via convinti che sia l’unica possibile.
Ci sono persone che decidono il corso, se non dall’inizio almeno lungo il tragitto.
Mi piace pensare di essere una di quelle persone.
Mi piace pensare di essere uno in grado di prendere decisioni e, per quanto possano complicarmi la vita, portarle avanti nonostante tutto.
Contro ogni previsione, contro ogni pronostico, contro ogni logica a volte.

“Hey little girl, is your daddy home?
Did he go and leave you all alone? Mhmm
I got a bad desire
Oh, oh, oh, I’m on fire”

Ho dato un taglio drastico alle mie dipendenze, non so nemmeno io come, ma l’ho fatto. Ho tolto l’hashish dalla dieta, e mi concedo giusto un piccolo svago una volta al mese. I cinque grammi che una volta fumavo in un giorno, ora mi durano fino a dieci giorni.
L’alcool, che come ogni palliativo era diventato un problema reale, è tornato ad essere poco più che un divertimento.
Da usare al momento, senza farsi trascinare giù nel fondo limaccioso delle proprie paturnie.
Le sigarette le fumavo come dovessi trarne l’ossigeno necessario alla sopravvivenza. Un pacchetto e mezzo al giorno.
Ora fumo tabacco, ed il pacco da trenta grammi dura giorni e giorni.
C’è un risparmio in questo. E spesso mi domando, se avessi le possibilità che avevo magari lo scorso anno, che farei?
Continuerei ad essere così morigerato o premerei l’acceleratore sull’autodistruzione come ho sempre fatto?

“Tell me now, baby, is he good to you?
And can he do to you the things that I do? Oh no
I can take you higher
Oh, oh, oh, I’m on fire”

Preferisco non sapere la risposta e fare passare questo tempo così come passa.
Preferisco non sapere il finale e sperare di guardare il film fino alla fine, senza addormentarmi prima.
Senza preghiere, senza cantilene monotone, senza mantra ripetuti per sorreggere il mondo lungo l’asse immaginario della sua orbita.
Perché non è colpa di qualcuno quando ci gettiamo di faccia nel fango delle nostre sensazioni malate. E non è merito di nessuno se ci rialziamo da quel fango.
Solo nostro.
Come è nostra la colpa è nostro il merito.

“Sometimes it’s like someone took a knife, baby
Edgy and dull and cut a six inch valley
Through the middle of my skull”

Non avrei motivi validi, eppure sono felice, in questo momento della mia vita, nonostante tutto, sono felice.
Per tante di quelle ragioni che non starò a spiegare. Perché come ogni persona che ha l’hobby della scrittura, sono solo in grado di spiegare perché le cose vanno male, ed ho il blocco quando devo raccontare del perché, in fondo, sorrido.
Forse non ho neanche tutti questi motivi.
A tirare le somme non è che vada tutto come deve, e probabilmente da qui a un mese sarò di nuovo infognato a bere per spegnermi.
Ma beato a chi c’ha ‘n’occhio domani, come recita l’antica saggezza romana.

Ciuf ciuf

17 Apr

Il treno lento ha iniziato il suo viaggio, dalla città del Colosseo a quella della Torre.
Attraversa le valli, costeggia il mare, osserva le colline, che per riguardo chiudono gli occhi.
Fermerà ad ogni stazione, ad ogni frazione, in ogni comune. Raccoglierà e scaricherà storie, legate a persone di ogni dove.
Storie allegre, storie tristi, storie noiose, altre avvincenti, nessuna che mi riguardi in alcun modo.
Guardo fuori, ho dimenticato il libro e odio guardare il telefono troppo a lungo, così mi limito a osservare un paesaggio di campi coltivati e blocchi di case basse qui e là.
La campagna, i tralicci, i ruscelli verdi, i pannelli solari, le grosse macchine agricole, i filari, la linea elettrica, vecchi casali abbandonati, un sole timido che mi segue da casa. Le somiglianze che ho intorno, che questa musica nelle orecchie rende così evocative e toccanti.
Passo attraverso posti che sono stati importanti, o in cui ho passato momenti che ricordo ancora come umilianti.
La campagna scorre al mio fianco come l’acqua di un ruscello, i pensieri seguono la corrente come pesci affamati.
Le curve sinuose delle colline sembrano quelle su cui ho sospirato a lungo.
Il cielo piatto mi riporta alla realtà.
Una realtà con i denti, che morde e lascia segni profondi.
Freddo come il marmo delle cave qui intorno.
Entro ed esco dalle gallerie e dalle vite delle persone, cerco di non lasciare impronte, o di lasciarle al contrario, in modo da non potere essere seguito.
Perché non so neanche io dove sto andando.
E non vorrei che qualcun altro si perdesse dietro a me.
La rotaia ed il treno producono questo suono identico da sempre, come il battito di un cuore di ghisa e vapore, di acciaio e livore, di legno e rancore.
La vita corre in questo treno, con tutte le sue delusioni e sogni ed illusioni sopravvissute alla pioggia ed al sole, al ghiaccio ed alla notte scura e piena di stupore.
Sento questo suono da quando sono venuto al mondo tra fiume e ferrovia, in mezzo una strada, una lingua nera che porta fino al mare.
Il suono delle rotaie attraversate dal treno.
Il suono del fiume che scivola nel suo letto, e che è inesorabile, come la sabbia che scorre lungo una clessidra.
Si può sdraiare una clessidra per illudersi di fermare il tempo, si può arginare un fiume ed alterarne il percorso, ma non si può fare altro che deviare quell’acqua che da millenni scorre lungo la sua strada, lungo la via che paziente ha trovato, perché le è impossibile stagnare, in quanto corrente.
Sono nato tra queste tre verità assolute: il fiume, la strada e la rotaia. Era impossibile che restassi fermo a stagnare.
Era scritto che dovessi mettermi in cammino e che mai avrei pensato di essere giunto a destinazione.
Perché è inciso nella pietra della mia conoscenza, che la vita è un percorso da fare a piedi, con soste brevi e lunghe, forzate e decise, ma che l’arrivo non lo decideremo noi, ma chi scriverà il nostro epitaffio.
Qui, finalmente, giace.
Il tempo di riprendere fiato.

Sono perso in queste elucubrazioni mentre osservo fuori, l’ordinata campagna toscana, pulita ed elegante, e ad un tratto mi passa vicino un’ombra. È un trolley che viaggia leggero. Così leggero che il propietario non c’è. Si fa il corridoio tra i sedili. Io e una ragazza ci guardiamo e scoppiamo a ridere.
Poi capitombola, il trolley, giù per le scalette.
Un arabo male in arnese si risveglia da un pisolino di incubi di guerra, e quando sente il tonfo del trolley giù per le scale, si alza di scatto, mi fissa con gli occhi da assassino fuggito da massima sicurezza, e mi chiede, stabuzzando lo sguardo già terrorizzante:
-Chi???
Io lo guardo e all’inizio non so che rispondere.
Poi gli dico non lo so chi, è un trolley, è volato giù per le scale. Credo sia dei cinesi che dormono.
Scendo, recupero il trolley e lo rimetto sul corridoio, l’arabo se ne impossessa, e lo porta vittorioso al proprietario.
Che lo ringrazia caldamente.
Mentre risalgo noto che i cinesi sono quattro.
Tre dormono, uno non ha mai smesso di mangiare, da Roma Termini a qui, che siamo tipo a Cecina, o simili.
Non ha un bagaglio, ma un frigo della Smeg con dentro un all you can eat.
Mi guardo intorno, so che devo scendere tra poco, è una bella giornata, ed alla stazione ci sarà il sole più forte ancora.
Mi basterà uscire, andare a destra e poi tornare indietro e poi a sinistra.
Col sorriso di un ragazzino, dipinto sulla faccia da schiaffi che ho.

Prendila come viene

14 Apr

Osservo immagini a cascata nella parete d’osso su cui il cervello che vi è contenuto, le proietta.
Sono il pensiero irrazionale, privato di un organismo non causo alcun aumento del battito, non interferisco con l’affluenza di sangue in determinate aree.
Non produco alcuno stato d’ansia perché sono scollegato dallo stomaco e dal diaframma. Non ci saranno contrazioni in alcun senso.
Osservo ricordi, quelli più freschi, quelli più vecchi, tutta la vita che ci è stata in mezzo.
Osservo tutto col distacco che mi garantisce questo essere scollegato dal corpo che mi ha prodotto.
È successo ad un tratto, non saprei dire come, eravamo seduti su questo divano insieme, ricordo che stavamo scrivendo una canzone, suonicchiando pigramente la chitarra, e ad un tratto non sentivo più nulla, né la voce né le corde al contatto con unghie o polpastrelli.
Ma il corpo continuava lo stesso a suonare e scrivere.
Ero io che mi ero distaccato.
Io che fino a quel momento mi ero sentito così essenziale, ho scoperto in un momento cosa sono in realtà.
Tutti i dubbi, le paure, le ansie, l’inadeguatezza, il disagio, producono pensieri impossibili da controllare, come avere mille voci in un’unica testa, e tutte sembrano avere urgenza e priorità sulle altre.
Ed è lì che sono nato io, che racchiudo tutte queste voci.
Sono il pensiero irrazionale di quest’uomo, e da quando ha trovato il modo di chiudermi in questa parte del cervello che non utilizza mai, percepisco la sua serenità.
Continua ad avere paura, è certo.
Continua ad avere dubbi e incertezze, è ovvio.
Eppure non è più preda e ostaggio di dubbi, paure ed incertezze. È il fatalismo del cow boy che gli fa dire:
-prendila come viene.
Le cose andranno comunque come devono, l’unica possibilità che abbiamo è quella di non lasciare che la paura ci tolga anche il bello, dalle cose che, inevitabilmente, accadono.
Altrimenti sarebbe come decidere di non vivere, perché tanto prima o poi si muore lo stesso.
Ed il fatto che si muore è l’unica certezza inconfutabile della nostra vita.
Eppure quasi tutti decidono di vivere nel frangente temporale che gli tocca, e per la durata che gli tocca.
Ed il fatto che finisca forse, è quello che rende così bello essere vivi.
Se la gioventù non finisse mai non sarebbe così bella, sarebbe solo noiosa.
E difficilmente si vede un giovane felice di essere giovane. Di solito uno se ne rende conto dopo, di quanto era bello essere giovani.
E posso affermare che da quando non sento più lo stomaco contratto, perché non ne ho più uno a cui collegarmi, anche io vivo meglio. Continuo ad osservare incubi e presagi, immagini frustranti o spaventose, però senza l’effetto collaterale della sensazione fisica è tutta un’altra cosa.
È come essere chiuso ad un Fanta Festival infinito. A tratti mi sganascerei dalle risate, se avessi una bocca con cui farlo.
Mi siedo qui comodo, sulle rughe del cervello, morbido ed avvolgente, e metto play.
Mi rivedo qualche brutto sogno, qualche fobia inconfessata, qualche sogno bagnato di quelli che non racconterebbe neanche G.G. Allin, insomma ho una discreta scelta.
E passo la giornata a scorrere tra tutti i mostri e le le figure macabre che popolano queste immagini.
E lui intanto, senza di me, pulisce casa, si prepara da mangiare, stende una lavatrice, piange su un film e sicuramente dorme.
Lo sento che dorme molto meglio.
Mi manca un po’.
Chissà se anche lui sente la mia mancanza…

Il rospo

12 Apr

Non fumava da un pezzo.
L’ultimo spinello l’aveva spento almeno un mese prima.
Trenta giorni per disintossicarsi.
Aveva appena fatto due tiri ed aveva capito subito che quella sarebbe stata una giornata particolare.
Ne aveva fumata metà, e gli occhi faticavano a restare aperti.
Doveva uscire per andare sotto la casa, dove aveva vissuto fino a due anni prima con le sue figlie e la sua ex moglie.
Voleva vedere figlia grande, da lontano, senza avvicinarla per non farla fuggire di nuovo.
Era uscito pieno di buoni propositi, le palpebre a mezz’asta e fatto come un fegatello. L’aria calda ma frizzantina lo faceva sentire in pace.
Inguainato in quella membrana che distanzia giusto di un velo dall’aria e dai suoni esterni. Come avere una busta intorno che protegge dalle rotture di coglioni.
Camminava tranquillo quando era stato incrociato, nello sguardo e nella traiettoria, dalla mamma di un’ex compagna delle elementari di figlia piccola.
Sperava in un saluto veloce. Appena un cenno con sorriso d’ordinanza
Niente di più falso.
Era stato tremendo.
Una conversazione demenziale, con lei che cianciava riguardo ad un pic nic nel parco delle porchemadonne, con tutti i genitori della classe delle elementari. Con lei che mezza si scusava perché nel frattempo non si erano più sentiti, anche se con i genitori di vattelapesca si vedevano ancora.
Ma in quest’epoca così frenetica era così difficile mantenere i contatti.
Intanto lui pensava solo ma che cazzo stai a di’. Domandandosi in cuor suo se davvero lei parlasse seria, o se magari anche lei era sotto effetto di qualche antidepressivo da professoressa media.
Lui aveva la capacità reattiva di un tappeto da bagno. La lingua felpata ed attaccata al palato.
Bisogno d’acqua e di fuga.
Facevano tragicamente la stessa strada.
Lei domandava cose, lui rispondeva in maniera confusa attaccando monosillabi insieme per cercare di formulare, se non frasi, almeno parole di senso compiuto.
Il sole lo mirava sulla fronte con un fucile d’assalto, lei lo incalzava con domande su domande. Ricordando addirittura i nomi dei compagni di classe e dei loro genitori.
Lui continuava ad osservare nella palude ormai arida della sua memoria, ed al massimo ogni tanto incrociava lo sguardo di un rospo ottuagenario a cui domandava se per caso almeno ricordasse un dato, o almeno escogitasse un modo per uscire da quella situazione.
La risposta implacabile del rospo era sempre la stessa:
-CRA CRA
Lei insisteva, ormai senza più freni.
Gli diceva nomi e fatti di cui non gliene fregava assolutamente nulla.
L’unica risposta a tutte le domande e le affermazioni ascoltate in quel frangente, sarebbe stata un trattenutissimo “e sti cazzi non ce li metti?
Una risposta a sua volta interrogativa, se vogliamo.
Gli sembrava di essere riaffondato nella melassa dell’attesa, davanti al cancello delle elementari all’uscita. In quello strano limbo in cui tutti si sentivano in dovere di fare conversazione.
Tutti con argomenti adatti ai minori, noiosi come osservare la ricrescita delle unghie in tempo reale.
Tutta aria sprecata in chiacchiere, solo perché le persone hanno il terrore del silenzio.
Di quello spazio di pace assoluta in cui c’è il rischio di fare una riflessione troppo profonda.
E allora riempiono quello spazio con parole, frasi e concetti inutili.
Ora lui era in ostaggio.
Senza la capacità di fingere una telefonata, una sosta, una deviazione qualsiasi, dal tragitto identico che avrebbero fatto, fino alla meta di lui.
Troppo fatto e dopo tanto tempo, aveva perso ognuno di quegli istinti basici che lo avevano tenuto in piedi per anni.
Adesso era la preda perfetta, la vittima ideale di questo tipo di conversazioni.
Come essere chiusi nell’ascensore più grande del mondo, circondato da gente terrorizzata dal silenzio.
Però in una certa maniera era anche divertito: percepiva il disagio di lei.
Era chiaro che meno lui era in grado di parlare, più a lei sarebbe toccato farlo.
Per dovere di ospitalità, direi.
Perché era ovvio, doveva essere ovvio, sarebbe giustizia universale quindi prego perché fosse ovvio, neanche a lei fotteva un cazzo di fare quella conversazione.
Per lei era solo una questione di educazione.
Un tipo di educazione diversa da quella di lui.
Che reputava lo starsene zitti II miglior regalo potesse essere fatto in genere.
Attraversavano strade e lei parlava, un tragitto di poche centinaia di metri diventava un percorso a ostacoli nelle scoscese del proprio disagio.
Ad un tratto finalmente sente quella parola magica:
-Ok ciao, sei arrivato, saluti a tutti.
La liberazione, l’aria fresca, la quiete. Anche se c’è rumore di traffico e sirene, riesce a sentire gli uccellini.
Ora troverà un modo di entrare, sedersi sulla panchina nel cortile, e guardare sua figlia grande passare, senza fermarsi, senza salutare.
Ma almeno la vedrà passare.

Nessuno raggiunge Itaca

11 Apr

L’odissea è uno dei poemi epici pilastro della cultura occidentale, pur traendo il nome da una regione dell’Asia minore e l’origine da antichi canti marinari.
Colui che odia ed è odiato narra la storia che conosciamo tutti, ed è la storia di Nessuno, e quindi di un po’ tutti in definitiva.
È stata parafrasata, interpretata e trasposta in mille maniere diverse.
Forse perché è una storia che racchiude tutti i sentimenti umani di chi non segue una vita esattamente lineare.
Ovvero di chiunque decida di vivere la vita fino in fondo.
È la storia di un uomo che cerca soltanto di tornare a casa, ma si perde, per colpa degli dei e delle proprie emozioni, in un viaggio che dura anni ed anni.
Tornerà, ma non sarà lo stesso. Tornerà, ma dovrà conquistarsi il posto che credeva essere suo di diritto.
Itaca non è altro che un’idea, una percezione inesistente ed idealizzata, appunto, della casa intesa come focolare domestico.
È il viaggio interiore di chi toglie ai ricordi tutte le parti negative e traumatizzanti, e tenta con ogni mezzo di raggiungere quei luoghi ameni della sua memoria.
È lo scontro con la realtà, che con la memoria spesso c’entra molto poco.
Le trasposizioni non si enumerano neanche.
Cinematografiche, letterarie, fumettistiche, musicali.
Essendo slegato a questo tempo e figlio di una cultura appartenente al secolo ed al millennio scorso, ho una visione non molto in linea con il nuovo corso culturale, quindi tendo a percepire l’odissea come la storia di un uomo, cisgender come si dice ora.
La storia dell’uomo in generale ed in particolare di un uomo tendenzialmente solo.
Inutile dire che spesso scorgo parallelismi con la mia storia personale.
Non sono certamente così avventuroso, né ho capacità di navigatore o stratega di guerra, ma cado spesso in tentazioni, e lascio che il tempo mi scorra addosso abbandonandomi alla dolcezza ingannevole dell’oblio.
Ma sento comunque che il viaggio è ancora lungo e che la meta è lontana. Ed Itaca a tratti mi pare ad un passo, ed a tratti irraggiungibile.
Non starò a entrare in dettagli riguardanti sirene o maghe circi qualsiasi.
Il punto non è quello.
Il punto è quel bisogno di tornare a casa.
La differenza sostanziale è che non esiste una casa in cui tornare, non dovrò riconquistare Penelope uccidendo i Proci, non ho penelopi da riconquistare.
Ma ho la necessità di trovare l’approdo per questa nave che spesso è alla deriva, che spesso ormeggia in porti e cale che sembrano quelli giusti in cui piantare le tende, ma poi si rivelano soltanto altre tappe di un viaggio non ancora finito.
Anche io sono nessuno, anche io sono colui che odia e senz’altro colui che è odiato, per un sacco di ragioni che qualcuno potrebbe indovinare, qualcuno potrebbe sapere e qualcuno potrebbe fantasticarci sopra.
Sento forte una mancanza che però è vaga, indefinita. È la mancanza di pace e quiete.
Di stabilità.
Ed io stesso ho intrapreso il viaggio, la nave che mi ha portato via era un 35 quintali, mi ha trasportato fino ad un’isola. L’isola dove ho conosciuto l’oblio.
Un oblio che non esiste più, rimanendo solo un senso di vuoto esistenziale.
Lo spleen caro tanto a Lou Reed quanto a Baudelaire.
Lo spleen che si trova nei testi greci quanto nel Talmud e che è parte fondamentale del carattere anche nella cultura cinese.
Una malinconia che non è del cuore ma dello splene, la milza. Quell’organo di cui ti accorgi solo quando ti fa male se corri dopo avere mangiato.
Questa malinconia non è dolce, ma biliosa, nera come pece, fatta di silenzio prolungato e solitudine come bisogno ultimo di evitare spiegazioni che mi provocano imbarazzo.
Solitudine come soluzione, come unica condizione possibile mentre navigo alla deriva, ed ogni volta che avvisto una possibile terra punto in un’altra direzione, perché avverto che nemmeno quella, è la terra che potrò chiamare casa.
Il mio ciclope è stato accecato molti lustri orsono, era un ciclope ubriaco, che ho abbattuto come prima tappa fondamentale del mio infinito viaggio. La maga Circe ha avuto fattezze ed indirizzi diversi, ma da tutti sono riuscito a fuggire. Il mio equipaggio si è ridotto fino a che non sono diventato un navigatore in solitaria.
I canti delle sirene non mi hanno attratto, e non c’è stato alcun bisogno di farmi legare ad alcun albero maestro.
Ho approfittato dell’ospitalità di Nausicaa in tante occasioni diverse, ed è stato quando ho compreso che avrei dovuto trovare un altro posto per fondare una nuova Itaca.
Adesso sono ancora in mare, e Nessuno continua ad essere il mio nome.
Mi accontenterò di guardarti da lontano, e saprò che non vorrai parlarmi, ed aspetterò fino a quando, forse, vorrai ascoltare la mia storia, le mie scuse, il mio viaggio infinito.
E non pretenderò alcun perdono.
Almeno fino al giorno che non deciderai di concedermelo.
O in cui mi dirai che di me non vuoi sapere più niente.
Tu potrai cancellarmi, io no.
Perché sei il sangue del mio sangue.
Il sangue con cui questa storia, questo viaggio viene scritto ogni giorno.
Sarai il solo approdo possibile.
La sola Itaca dove finalmente sbarcare.