Archivio | aprile, 2024

Thriller scandinavo

10 Apr

Mattina presto, apro gli occhi che è ancora buio, ho ancora immagini vaghe di una specie di incubo avuto durante la notte.
Mi sono addormentato presto, più presto del solito, neanche mezzanotte, e il mio cervello sconclusionato mi ha proiettato questo strano thriller scandinavo sulle pareti d’osso del mio cranio compromesso.
Una villetta, una famiglia di gente coi lineamenti slavati, quella serenità apparente che fa presagire che tutto andrà in malora nel giro di poco.
Un padre dall’aria appena severa, una madre con l’occhio spento dal diazepan e dal vino francese, giusto un bicchiere qua e là durante la giornata.
Due figli, una ragazzina sui dieci anni ed un ragazzo sui sedici.
Tutto perfetto. Una casa a due piani. Una cucina spaziosa con l’isola al centro e la calamita al muro per i coltelli. Uno di quei set di lame costosi e ricercati.
Il giardino curato, il cielo nuvoloso che schiaccia gli alberi verdissimi.
Qualche gioco lasciato sull’erba tagliata di fresco. Il mio punto di vista è quello di una macchina da presa, io non sono null’altro che uno sguardo in questa famiglia.
I ragazzi scherzano tra loro, il maschio scende le scale di corsa, la mamma un po’ sorride un po’ protesta sommessamente.
La ragazzina entra ed esce dal giardino, sempre pulendosi le scarpe prima di rientrare in casa.
Il padre adesso ha un’aria minacciosa, ha litigato con la moglie per motivi che non riesco a ricordare. Nel giro di pochissimo uno di quei coltelli viene preso dalla calamita, e piantato nello sterno e nella pancia della donna, che crolla al suolo, morta.
La ragazzina entra in quell’istante in cucina ed il suo sorriso si trasforma in un urlo che fa trasalire il fratello. Suo padre si muove con lentezza esasperante, inesorabile.
È chiaro che si prepara a fare una strage familiare.
Il ragazzo entra in cucina alle spalle del padre, prende anche lui un coltello e lo pianta tra le scapole del padre. Che a sua volta crolla a terra a pancia in giù.
Il fratello afferra la sorella ed escono dalla casa e dal giardino. Sono in mezzo ad un bosco, un sentiero alberato.
Il ragazzo torna in casa e decide di trascinare il cadavere di suo padre in quel bosco.
Senza fatica, come solo in un sogno sarebbe possibile, si trova a trasportare questo peso morto per le caviglie, fino a portarlo tra gli alberi.
E coprirlo con foglie gialle.
Non riesce a farlo scomparire del tutto.
Si sente colpevole di omicidio, è come se avesse dimenticato quello che era successo prima.
Sente solo di dover fuggire assieme a sua sorella.
Una volta occultato il cadavere alla meno peggio rientrano in casa, forse per prendere un po’ di bagaglio, forse per dare modo alla trama di arrivare ad un dunque.
Ai piedi della scala sentono il rumore di un’auto che si ferma fuori casa loro, la ragazzina sbircia dalla bovinda, scostando una tenda.
È la polizia, dice.
Una donna bussa alla porta, è un commissario.
Dietro di lei riappare il padre, che non è morto manco per niente.
Il commissario inizia a domandare cosa sia successo, i ragazzi provano a spiegare concitatamente l’accaduto, tentando di mostrare alla donna il cadavere della madre, in quel momento il padre estrae di nuovo il coltello, e fa un taglio superficiale sul braccio del commissario.
Ci crede ora? Domandano i ragazzi
In quell’istante la donna commissario si gira verso di loro, cambiando completamente espressione.
Ma io vi ho sempre creduto ragazzi, dice.
Ed ora il suo volto placido di donna bionda del nord Europa si trasforma in quello di una feroce donna serpente.
In quel momento i ragazzi comprendono che padre e commissario erano stati d’accordo dall’inizio.
Ecco perché quell’auto era comparsa dal nulla, senza che nessuno avesse potuto chiamare la polizia in alcun modo.
Ora sono chiusi in una trappola a forma di casa, la stessa in cui hanno mosso i primi passi, in cui hanno imparato a pedalare, in cui sono stati coccolati e messi a dormire da piccoli.
Il ragazzo ha un coltello molto affilato.
L’uomo e la donna hanno il sorriso più perfido del mondo sul volto.
I ragazzi sono terrorizzati.
Ed io mi sono svegliato a questo punto.
Nel buio di una mattina che ancora non si è separata dalla notte appena trascorsa, senza sapere se si sono salvati.
Mi sono acceso una sigaretta dietro l’altra dopo avere provato inutilmente a riprendere sonno.
Mi sono chiesto pigramente che cazzo mi possa mai passare per la testa.
Non ne ho idea.
E non ne ho idea in più di un senso.
È uno di quei periodi così fermi e stantii da farmi sentire parcheggiato con le gomme sgonfie in un campo abbandonato.
Con gli stessi stimoli di un’auto arrugginita, le stesse emozioni di un sasso di stagno.
Niente da fare, niente da dire, niente da provare.
Se non fosse per queste scosse che mi danno i sogni, probabilmente penserei di essere morto da un pezzo.
Un coma indotto, un’esperienza di stasi come poche volte ho provato nella vita.
Non ho voglie di alcun genere, alcuno.
Ho fatto esercizi per quasi due anni in ogni condizione, stanco morto dopo aver lavorato, dopo aver bevuto. Mi servivano a scaricare lo stress, a non pensare.
Ora li faccio solo perché altrimenti mi fa male la schiena, non c’è più quella tensione che mi teneva sulla corda, non c’è più quella spinta che avevo bisogno di sopprimere, non c’è più un sacco di roba che è stata qui e che ora, chissà che cazzo di fine ha fatto.
Ed è successo all’improvviso, senza che potessi accorgermene. Di punto in bianco.
Si fa un gran parlare di overthinking ultimamente, con questo termine si indica quell’infinito susseguirsi di pensieri senza alcun senso logico, che logorano mente e corpo e che causano stess ed ansia.
Bene, non ci sono più.
E non so nemmeno se è un bene o un male, è un dato di fatto.
Accettare il proprio destino.
Potrebbe essere questo il caso.

Periferia

9 Apr

La periferia.
Luci gialle di lampioni illuminano lunghe lingue di strada scura. Spiazzi enormi nel nulla. Palazzoni in lontananza, strisce abusive di case basse, piani regolatori, progetti mai portati a termine.
La gente. Le pizzerie al taglio, i bar, le mercerie, sullo sullo sfondo grossi blocchi di centri commerciali.
I discorsi. La parlata greve e la voce alta, il tono ruvido. I segreti mai detti, i sospiri al balcone prima di lanciare una cicca di sigaretta di sotto.
Piccoli gruppi fermi sulle panchine, i movimenti, i passaggi di mano. I borselli, le pochette, i capelli e i cappelli, l’outfit lo chiamano mo’ pure quelli che non sanno una parola di inglese.
Le tute, le scarpe linde.
T max e smart, l’oro a vista.
Er Bangla aperto, er kebabbaro.
I turisti del centro in visita circospetta pe pia’ ‘n pezzo dall’amico de n’amico.
Il cielo gigante. Basso sulle teste. Il cielo finisce dove iniziano i lampioni.
L’uscita della stazione, il trenino fino a una certa ora. Le romene, le africane, le ucraine che hanno staccato dal lavoro e tornano a casa. I ragazzini che urlano con la voce baritonale e graffiata del fumatore di sessant’anni.
L’asfalto distrutto e rifatto, le toppe continue, in mezzo ai tralicci e le macchine ferme con uno con la mano fuori.
Due fidanzatini che tornano mano nella mano e si promettono amore eterno. Due ragazzetti che camminano a pochi passi da loro, lei gli dice:
-Amo’
Lui risponde:
-Aoh
-Ma perché nun me piji pure te pe’ mano, come loro?
-Perché io mica so’ frocio
-E quanto sei, amo’
Il fiume che non è lo stesso che passa al centro, ma un suo affluente.
E riflette un cielo diverso da quello del centro.
Altre storie, altre stelle, altre luci, altre voci.
Ragazzini africani, indiani, moldavi, cinesi, tutti parlano con lo stesso accento, che è quello della città che li ha visti venire al mondo. Non come al centro o al nord della città, dove i ragazzi parlano e non si sa da che cazzo di posto vengono.
Come si vergognassero di essere romani.
Quell’accento nord generico da pubblicità da quattro soldi.
La periferia, dove si consumano le giornate sulla pelle della gente, e tutti, volenti o nolenti, le responsabilità se le spicciano da soli. O col lavoro duro, o col carcere duro, e qualcuno con qualche botta di culo. O con la testa al muro.
Chi viene da certi posti prova a spiegare che significhi, venire da certi posti.
Ma gli unici a capirlo sono quelli che vengono da posti simili.
Tutti gli altri annuiscono, fanno sì sì con la testa, ma non lo capiranno mai.
Fino a che decideranno che non è importante, che è solo una posa ed un discorso stantio.
Perché non possono nemmeno immaginare che certe cose ti entrano nel sangue nel momento in cui vieni messo al mondo, e che ti accompagneranno per tutta la vita.
E che, in realtà, non vorrai liberartene mai.
Perché se sei come sei è merito del posto da cui vieni, e prima lo accetti, prima imparerai a gestirlo.
E a parlare con principesse e criminali.
La periferia e le sue leggende.
Di picchiatori e di scopatori, di giocatori, di campioni mancati che lavorano per la società telefonica da vent’anni, da quando si sono rotti il legamento. Da quando gli hanno messo i chiodi dopo il botto in vespa, quella volta che toccava sbrigasse pe’ arriva’ al campo, ma aveva piovuto e c’era l’olio per terra. E si era spezzato l’osso in tre punti.
Vite di gente qualunque e panni stesi al sole in balcone. Gente che esce all’alba per andare a servizio in quelle famiglie dell’altra parte della città, quella che ha i figli alterna pronti a giurare che siamo tutti uguali, che non c’è differenza, che il mondo è bello e perché non viaggi, che tutti abbiamo le stesse possibilità, che guarda che non è facile nemmeno per noi.
E certo che no, non è facile per nessuno.
Perché il beneficio del dubbio non si nega a nessuno
Siamo gente di periferia, legata ad una strada, legata ad una via.
Legati ad una storia che, per quanto la racconti, non sarà mai come averla vissuta davvero.

Casa Base

8 Apr

Rumori della notte, auto di passaggio, finestre aperte, aria fresca e voci di ragazze e ragazzi che si godono la primavera.
Mille pensieri, euro col contagocce, appuntamenti inderogabili, attese.
Il sonno lontano, stanotte non bevo, o bevo poco almeno. Il fisico è indebolito, ho ricominciato da poco a fare esercizi e sono molto meno in forma di quando ho smesso.
Non ho più forza, dovrò tornare ad averla.
I muscoli sono indolenziti come fossero anni che non faccio un cazzo.
E saranno forse un paio di mesi, forse qualcosa di più.
Mi sento cadere a pezzi.
È l’età mi dico. Poi mi dico di smetterla di raccontarmi bugie. Poi non so a quale dei due dare retta.
Quest’anno farò cinquantuno anni.
Sono tanti. Sono troppi per uno che sarebbe dovuto essere morto da un pezzo.
Ma ho sempre tradito ogni aspettativa.
È uno dei miei superpoteri.
Tutto il giorno con la musica in cassa, ho spento da poco, prima che qualcuno bussi alle pareti per lamentarsi.
La mia vicina mi guarda male, quella giovane, sua madre mi regala sempre grandi sorrisi.
Una mezza idea del perché ce l’avrei anche, ma me la tengo per me.
Aspetto per andare a letto, che gli occhi siano gonfi e rossi. Odio rigirarmi sul materasso senza riuscire a dormire, è una delle sensazioni più frustranti che si possano provare che mi accompagna da tutta la vita.
Non avere un orario per la sveglia aiuta in questo senso: vuol dire che posso fare tardi quanto voglio, e spesso lo faccio.
Mi infilo a letto quando per alcuni mancano due o tre ore per la sveglia, e cerco di non pensare a quando questa cosa riguardava anche me.
Racconto a tutti che approfitto di questo tempo per rimettere a posto tutti i casini che avrei dovuto sistemare da tempo, e che non ho avuto occasione di fare, perché troppo impegnato sul lavoro.
Ora che sono costretto a questa sosta forzata, assieme ad altre migliaia di lavoratori dello spettacolo, ho finalmente le giornate per rimettere a posto le cose.
Ovviamente non è vero.
Passo il tempo a fissare un cielo che mi cambia sotto gli occhi ad orari diversi.
Quando ero super impegnato al lavoro avevo l’incubo del fine settimana: quei due giorni mi sembravano infiniti, ed il cervello veniva mangiato via a brani da una serie di mostri, pensieri e paranoie, e le sensazioni di immobilità ed impotenza erano le predominanti.
Posso dire di avere superato quella fase.
È talmente da tanto che dura questa stasi che ci ho fatto il callo.
Non ascolto più mostri, non ascolto più pensieri, non ascolto più paure.
Non mi azzarderei a dire che sto guarendo per non fare impiccare analisti e psichiatri, alle travi dei loro studi costosi.
Mi sono semplicemente assuefatto, come il mio solito.
Ho studiato assuefazione e dipendenza e preso un master in resistenza alle sostanze, talmente tanti anni fa, che potrei dare corsi all’università.
Mi sono assuefatto a questo tempo immobile, in cui nulla cambia.
O meglio, se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi, come diceva Tancredi, nipote del principe di Salina nel Gattopardo.
Quindi tutto è cambiato per restare uguale a sé stesso.
Come queste notti quiete, interrotte da voci giovani, da auto in corsa, da canzoni a tutto volume pompate da impianti potenti, da camion della spazzatura e sirene in lontananza.
Come questi giorni bollenti a tratti, in cui a casa ti viene da coprirti e fuori ti strapperesti i vestiti di dosso.
Mi chiudo nella lettura di un vecchio romanzo, letto tante volte e che ancora mi regala sorprese, quell’American Tabloid di James Ellroy, uno dei miei scrittori preferiti da quando ero ragazzo. I suoi vecchi romanzi li amo tutti, fino a “I miei luoghi oscuri” che non ho amato. Da lì in poi ho smesso di leggerlo.
Però ho continuato a rileggere i suoi vecchi libri usciti fino a quel punto, di quando in quando.
Mi piace rileggere più volte lo stesso romanzo o raccolta di racconti. In generale.
Come mi piace rivedere i film.
Come amo riascoltare gli stessi dischi.
È come mettere una tenuta comoda da casa, ed in più ogni volta cogli qualcosa che ti era sfuggito le altre.
Ma credo che la ragione principale sia il senso di sicurezza e conforto che trasmettono.
Queste notti mi faccio accompagnare da Ward Littel, Kemper Boyd e Pete Bondurant fino a che non vince il sonno, e finisco a fare sogni placidi e tranquilli.
Sogno spesso numeri che non gioco mai.
Perché se c’è un vizio che non ho mai preso, è quello di giocare.
Le uniche volte in cui giocavo a carte, a parte le classiche partite a sette e mezzo in famiglia di anni ed anni fa, con dei valori da vincere o perdere, era quando ero rinchiuso al penitenziario di Sulmona e nella casa mandamentale di Altamura.
Poker con sigarette e francobolli.
Credo anche scala quaranta, ma non ci metterei la mano sul fuoco.
Ma è decisamente un vizio da cui mi sono tenuto lontano.
Conoscendomi abbastanza ho sempre saputo che non sarei uscito vivo da un vizio del genere.
Così continuo a sognare numeri. Cifre, tagli di banconote, attrezzeria numero tre, con tanto di chiave fregiata.
In mezzo ai numeri delle altre attrezzerie.
Sono sogni ricchi di particolari, di volti noti e sconosciuti, sogni colorati, più del film che mi capita di guardare mentre mangio qualcosa.
Film che guardo al telefono, senza voglia particolare, solo per farmi tenere compagnia.
Quando il giorno arriva mi lavo, mi vesto e mi sbrigo ad uscire, per camminare al sole, e rigirarmi le immagini e le frasi dei sogni nella testa, che in questo momento mi sembrano quasi più importanti di quelle che sento dire da sveglio dalle altre persone che ho intorno.
Arriverò a capo di questo, capirò cosa sto cercando di dirmi davvero.
Arriverò anche stavolta a casa base.
Perché è sempre andata così, anche quando ero certo di no.

Ciclope

7 Apr

Quando si dice “mandare tutto a puttane” probabilmente ci si riferisce alla mia capacità organizzativa. Che è quella di un seienne sotto mdma. O alla mia capacità di gestione dei rapporti, che è guidata dalla razionalità di una ragazzina di dodici anni che sta per avere il suo primo ciclo mestruale.
Tutto questo ben nascosto da una maschera di impassibilita che farebbe invidia ad un giocatore di poker.
Ho gli occhi a specchio, in grado di nascondere quasi tutte le emozioni.
Tranne in un caso che non starò qui a spiegare. Così come c’è solo un caso al mondo, nel mio mondo privato, in cui non sono in grado di trattenere la voglia ed il bisogno di telefonare e scrivere messaggi.
Ma questa è, decisamente, un’altra storia.
Fa caldo, il cielo è azzurro e terso, la Madonna è sempre lì ad osservare la strada, e la musica mi tiene compagnia.
Ho deciso di passare al tabacco, visto che le sigarette sono aumentate ancora ed io ho aumentato esponenzialmente il consumo di queste ultime.
Da quando ho smesso di fumare erba e fumo.
Ci si disintossica dal veleno solo tramite altro veleno.
O almeno, io ho sempre fatto così.
Non è la giusta maniera, indubbiamente, ma la risposta, la mia risposta a tutte le domande è sti cazzi, e non quarantadue.
In questo io e Douglas Adams non siamo mai andati d’accordo.
Fa caldo, il cielo è terso e azzurro, la musica mi tiene compagnia ed io aspetto la fine del mondo.
Con la serenità che contraddistingue il fumatore di oppio, e placido come una vacca indù.
L’orizzonte si riempirà di fiamme violacee virate al rosa, tutti crederanno ad un meraviglioso tramonto sulla capitale, invece sarà l’Omega che verrà a prendersi il suo spazio ed il suo tempo.
Chiamami quando sarai pronta ad essere reale Madonna nera. Hallelujah.
Mentre tutti correranno all’impazzata urlando in preda ad un panico animale, mi limiterò a versare un bicchiere e brindare ad un orizzonte che si assottiglia fino a scomparire, inglobando tutto.
Perché è così che deve andare, perché è così che è scritto nel grande libro del destino, quello che ho iniziato a leggere dall’ultima pagina, non per curiosità, solo per dispetto.
Per fare dispetto a quel dio a cui non credo pur nominandolo spesso.
Per vedere se davvero l’assassino è il maggiordomo o la scimmia coi piattini da suonare una volta caricata a molla.
E sarà un sabato qualunque, un sabato italiano, fatto di colline che in lontananza si vedono e poi scompaiono dietro una coltre di nubi grigiastre.
Nessuno da avvertire se stasera non torni a casa, nessuno a cui dire faccio tardi non aspettarmi, nessuno a cui chiedere che fine hai fatto. Nessuno da incolpare per quel palo d’ulivo arroventato e piantato nell’occhio del ciclope.
La città trattiene il fiato mentre i vessilli si scontrano nell’arena, il colore del cuore e del sole contro quelli del cielo, ma solo a certi orari.
Gli stessi colori del cuore e del sole si prendono il cielo quasi tutte le sere, e le aquile tornano nei loro nidi a leccarsi le ferite.
Di tutto questo mi interessa relativamente.
Solo una piccola parte di ciò che fui è rimasta qui dentro a tenermi compagnia, tutto il resto è andato via, lontano come lontane sono le stelle ed i ricordi dei sogni vaghi al mattino.
Ballavamo un tango lungo un marciapiedi,
Lei era molto più bassa di me, e c’era un’allegria nell’aria calda di fine giornata.
Un procione faceva capriole sui paletti anti parcheggio, e si sdraiava sulle foglie gialle trascinate dal vento. Un muso brutto e rovinato, un’espressione aggressiva.
Il cielo scoloriva piano, gli alberi ed il fiume di sfondo.
Eravamo giovani e pieni di speranze, pieni di possibilità che non avremmo colto mai, ma nei nostri occhi c’era ancora la speranza, una speranza anni novanta che il mondo avesse un posto per noi.
Un bacio dolce e le campane, la voce al megafono ed il telefono che inizia a suonare, trascinandomi di nuovo qui, trent’anni dopo, in questa realtà che non capisco più. In questa vita da sveglio che ha il sapore del ferro. E l’espressione cattiva di un procione malato e pieno di parassiti.
Una caricatura come quelle che disegnavo ossessivamente da giovane. Quando ancora mi perdevo su fogli bianchi fino a consumare i pennarelli e i polpastrelli.
Fino a liberare la testa da tutti i mostri che la abitano.

«Qui un uomo aveva tana, un mostro,
Che greggi pasceva, solo, in disparte,
E non si mischiava,
Ma solo viveva, aveva animo ingiusto.
Era un mostro gigante; e non somigliava
A un uomo mangiator di pane, ma a picco selvoso
D’eccelsi monti, che appare isolato dagli altri.»




Malaguena Salerosa

6 Apr

Ho sempre avuto un carattere di merda.
Sono una persona piuttosto educata, tendenzialmente gentile, sul lavoro non mi tiro mai indietro e cerco spesso di alleggerire il più possibile le fatiche degli altri, semplicemente perché mi fa stare meglio.
Però non sono mai stato capace di fingere simpatia o sorrisi con persone che non mi attraggono particolarmente. E non ho mai avuto la capacità di mediare le mie reazioni.
Posso stare in silenzio per giorni, annuire e fare quello che, in ogni lavoro del mondo è il  leit motiv predominante, cioè mettere l’asino dove vuole il padrone.
Ma ad un tratto un lato del mio cervello prende fuoco. Quando mi rendo conto che mi stanno facendo fare cose inutili, dannose per le tempistiche, quando qualcuno esercita semplicemente lo scettro del comando e, soprattutto, quando qualcuno che non sarebbe neanche in grado di sistemarsi la spesa in frigo senza l’ausilio di un tutorial su YouTube, prende decisioni che so già che avranno effetti negativi sulle risoluzioni dei problemi, il lato infuocato del mio cervello prende il sopravvento, e mi trasformo. Vomito tutto quello che penso direttamente in faccia alla persona in questione.
Senza stare a guardare se sia un’alta sfera, un’assistente in fregola o il sommo padrone del mondo. Mi si ribaltano gli occhi e gli devo dire che, semplicemente, non capisce un cazzo.
In più non sono mai stato in grado di fingere amicizia, essere accondiscendente, presenziare ad aperitivi e tutta l’allegra serie di comportamenti sociali positivi ed utili, che molti riescono invece ad avere con una certa naturalezza.
Il mio mondo è fatto di maestranze.
Persone a volte grevi, spesso non molto colte, ma decisamente più trasparenti dell’altra combriccola con cui non riesco a legare.
Questo ovviamente ha effetti negativi con la  continuità lavorativa.
Non ho mai avuto santi in paradiso, da mai.
Non ho parentele in grado di garantirmi chiamate sicure.
Non ho nemmeno l’abitudine di telefonare e tenermi in contatto, di base neanche con i miei amici più stretti.
È un grosso difetto, lo so.
Infatti ho esordito dicendo che ho un carattere di merda.
Se qualcuno vuole sentirmi deve chiamarmi, aspettarsi da me uno squillo o un messaggio è spesso tempo perso.
Non perché non mi affezioni, ma probabilmente per tutta una serie di mostri e turbe che porto in testa, più numerose dei capelli, che invece iniziano a diradarsi.
Dopo anni nello stesso ambiente fatico ancora a ricordare nomi e volti, fatico a stabilire legami che collegano questo a quest’altro.
Molti miei colleghi sembrano leggere settimanali di gossip, perché sanno che Tizio è nipote di Caio, o che cosa è sposata con coso, o che gnagno ha litigato con gnagna.
Io non ricordo neanche i miei di litigi.
Tendo a soprassedere.
Tendo a pensare che, siccome so fare, tutto quello che devo fare è mostrare quello che so fare.
Ma non è così evidentemente.
Infatti sono fermo da metà novembre.
Gente che ha iniziato domani lavora e lavorerà. Ha già fatto amicizia con la scenografa o l’arredatore. Ha già stabilito contatti con l’assistente giusta.
Cosa che non so fare.
Un mio limite enorme, da sempre.
È lo specchio del mio problema con l’autorità e l’ordine costituito, diagnosticato dallo psichiatra durante i tre giorni, all’epoca della leva obbligatoria.
Tre giorni che nel mio caso sono durati mesi, a diciotto anni.
Per le mie risposte al test, per una frattura alla tempia procurata qualche mese prima e per tante altre ragioni.
Tre giorni che non ho mai concluso.
Sapendo già che avrei disertato non ho ritenuto necessario concludere quella pratica.
Per molti versi il mio carattere non è cambiato molto da allora, anche se sono passati trentadue anni, sono rimasto lo stesso imbecille incapace di abbassare la testa ed accettare ordini quando penso che siano ordini inutili.
Lo stesso imbecille che non ha mai pensato al tornaconto sulla lunga distanza.
La mia lunga distanza è lo stomaco in pace. Che si contrae per la fame magari, o forse per il bisogno di farmi una canna, ma non perché ho dovuto fingere amicizia con qualcuno. Di cui magari non ho la benché minima stima. Con questo non voglio e non posso dire di non avere incontrato alte sfere illuminate o più che degne di rispetto, ma tendo comunque alla differenza di classe molto più di quanto non facessero i nobili le cui figliole o figlioli erano intenzionati a maritarsi con persone di lignaggio differente.
Loro guardavano dall’alto in basso, con sdegno e disprezzo.
Io ricambio il mio sguardo dal basso verso l’alto.
Sono schiuma della società, fiero della mia appartenenza, con un vocabolario che fa impallidire il loro, con una preparazione manuale di tutto rispetto, ed un orgoglio che mi precede sempre di tre passi.
Per quanto mi riguarda il mondo va affrontato col mento all’insù.
Come tutte le persone alte e non particolarmente grosse ho passato anni ingobbito, cercando di nascondermi in mezzo alle persone più basse.
Da un certo momento in poi ho deciso che, sti cazzi se mi si noterà per primo, anzi ben venga. Testa alta.
Per come la vedo la vita è una guerra, ed io, come tutti i protagonisti dei film che muoiono alla fine, mi muovo meglio da solo.
Senza stringere alleanze a meno che non sia per motivi che fanno battere il cuore, non gonfiare il portafogli.
Morirò solo e povero, è scritto da qualche parte in calce alle pagine della sceneggiatura.
Ma ho accettato questo ruolo perché era l’unico ruolo che potevo interpretare in maniera credibile.
Sono un monumento all’autodistruzione, da sempre.
C’è stato un momento in cui i riflettori mi cercavano, ma sono sempre stato veloce, nonostante le movenze brapidiche, più veloce della luce che mi rincorreva, quantomeno.
È un sabato triste, un derby che non vedrò, l’ennesimo da un paio d’anni a questa parte.
Un sabato solitario, perché è così che è stato scelto per me, e perché ho accettato questa decisione.
Probabilmente un altro giorno in cui mi ubriacherò da presto.
Aspettando solo che il tempo passi.
Chi nasce tondo non può morire quadrato, non è solo un detto, è una legge matematica, un principio fisico. Una regola aurea.
Una delle poche regole che accetto ad occhi chiusi.

“Si por pobre me desprecias
Yo te concedo razon,
Yo te concedo razon,
Si por pobre me desprecias.
Yo no te ofrezco riquezas
Te ofrezco mi corazon,
Te ofrezco mi corazon
A cambio de mi pobreza.”

Malaguena salerosa
Chingon

Black Madonna

4 Apr

La montagna guarda il mare lì vicino, che non la degna di uno sguardo.
Piante selvatiche che diradano dalla valle fino alle prime dune formate dal vento, poi solo sabbia che arriva a bagnarsi sulla battigia, con acqua salmastra trascinata a riva da onde incuranti del loro destino.
Orme che si perdono.
Un motorino abbandonato dietro le dune, uno zaino poco più avanti.
Nessuna traccia dei due ragazzi arrivati fino a lì.
Mozziconi di sigaretta e filtri anneriti.
L’asfalto è una lingua scura tra la montagna ed il mare, percorso pigramente a intervalli irregolari.
Un’ombra sembra fissare l’orizzonte, ma l’orizzonte non è dove lo sguardo si posa davvero.
Un altro bicchiere svuotato tutto d’un fiato, un’altra giornata passata. Altri colori nel cielo.
Nessuno intorno per chilometri e chilometri.
Sigarette e sogni ad occhi aperti, nessuna realtà da salvare, solo un mucchio di immagini in memoria.
Numeri sognati e mai giocati.
Un uomo qualsiasi conta i pochi spiccioli che ha in tasca, pensando a come fare finire la giornata, la settimana, la storia in divenire che è diventata solo uno still frame, quello in cui si beve un ultimo bicchiere, fermo nel momento in cui lo porta dalla bocca al tavolo basso multicolore.
Fumo denso davanti all’obiettivo, nessun suono.
La musica devi immaginarla tu che sai che roba mi piace.
O tu che non ne hai idea.
Le due anime dietro ad ogni indecisione.
Avrà ragione la terza.
Che è sempre la migliore.
Odore di salsedine e crema solare, di acredine e guerra totale.
Un’ombra si aggira su questa spiaggia deserta, cerca i due ragazzi scomparsi, che forse sono lo stesso ragazzo e le sue molteplici personalità.
È rimasta sola, come è sola la montagna che guarda il mare.
È un’ombra lunga del sole al tramonto.
Nessuno intorno.
Nessuno chiamerà.
Nessuno risponderà.
Lo stomaco ed il cuore hanno smesso di parlarsi, il cervello si è deciso a prendere distanze da tutto.
E ognuno sembra andare per la sua strada.
Ci vedremo all’arrivo dice il più saggio.
E sa che poco importa chi sarà il primo ad arrivare: fino a che l’ultimo non sarà giunto non si potrà considerare finito questo viaggio interminabile.
-siamo arrivati? Dice la bambina
-quanto manca? Chiede insistente
Nessuno risponde, nessuno alla guida.
Un’intelligenza artificiale fatta di sangue e tessuti. Artificiale perché simulata.
È solo una naturale stupidità che ha imparato a fingere bene.
-siete voi a pensare che io sia sensibile e raziocinante, la realtà è che sono una scimmia depilata con poche emozioni sbagliate, ma più lo ripeto più non ci credete.
L’ombra cammina fino alla strada, ha superato lo zaino, il motorino, le dune, i cespugli. Adesso è fermo sulla lingua nera di asfalto lucido.
Si guarda intorno curioso, cerca l’evitante e l’ansioso, sapendo che sono la stessa persona in due orari diversi, in due giorni diversi, in due situazioni diverse.
Saprebbe cosa dire ad entrambi, ma sempre al momento sbagliato.
Due cani corrono giù dalla montagna, felici, lingue penzolanti fuori da bocche spalancate, persi in sorrisi estasiati, inciampando nelle loro stesse zampe, ruzzolando e continuando a correre.
Mentre il sole leggero sparisce dietro le gobbe delle colline, il mare geloso vorrebbe il tramonto solo per sé, ma la costa è quella sbagliata.

“Call me when you’re ready to be real
Black Madonna, hallelujah
Makes no difference here, so let’s be real
Black Madonna, my black flower
Nowhere left to run, nowhere left to hide
You’re not havin’ fun, I think that you should ride
Call me when you’re ready to be real
Black Madonna, my hallelujah”*




*C.t.E. Black Madonna

Canti di guerra

3 Apr

La nostalgia è un fantasma e l’allegria è una bugiarda;
La testa al mattino gira sempre troppo veloce e la notte gli occhi restano aperti.
Per dormire nove ore filate c’è bisogno di tante di quelle tennents che preferisco dormirne quattro, quando va bene, di fila.
Ci si disintossica da un veleno solo ingurgitando un veleno diverso.
Voci lontane sempre presenti, anche se ci sarebbe solo bisogno di silenzio.
Rumore di mare e di gabbiani, onde sugli scogli, la schiuma che si infrange e le alghe sul bagnasciuga.
Il cuore è un mosaico scomposto, un puzzle pieno di pezzi sbagliati, tessere mescolate che non torneranno mai insieme.
Una melodia triste nell’aria fresca e leggera.
Il mondo brucia senza futuro, quanti anni sono che senti questa canzone?
Non è una canzone d’amore ma un canto di guerra.
I civili trucidati, donne e bambini ridotti alla fame. Il cibo e l’acqua usati come esca per stanarli, e poi falciarli con fucili automatici d’assalto.
Vecchie foto in galleria, nuove vittime in corsia.
Il mondo brucia senza futuro, quanti anni sono che ripeto la stessa canzone?
Il male è oscuro e sta vincendo ovunque sulla terra.
Sta vincendo nella testa delle persone al sicuro nelle loro case. Sta vincendo nelle opinioni personali.
L’empatia è una malattia, l’unica che non contagia.
Riempito il bicchiere si svuota di colpo.
Un’altra bottiglia da mettere via.

“You can drive all night
Lookin’ for the answers in the pourin’ rain
You wanna find peace of mind
Lookin’ for the answer
If we can find a reason, a reason to change
Lookin’ for the answers
If you can find a reason, a reason to stay
Standin’ in the pourin’ rain”*1

Il bicchiere si svuota ed il portacenere si riempie di promesse non mantenute.
Padre nostro che sei nei cieli
smetti per una volta di guardare da questa parte.
Il problema non è non credere in dio, il problema è che dio crede in te.
E si prega sempre e solo chi non ascolta, e si prega sempre in silenzio.
Anche quando si prega sé stessi, per una volta, di prendere una decisione.
In bilico come un funambolo tra due grattacieli, il vento che soffia fortissimo, anche se non abbastanza da spegnere i dubbi e i ricordi.
Vecchi bisogni e nuove realtà, in una porzione di spazio dove cercare di non pensare è un’utopia e pensare una perdita di tempo.
La mia coscienza sporca di fuliggine e fango e giuramenti infranti.
Sorridi per la foto, e non strizzare gli occhi per il flash.
Ma sono solo lacrime improvvise.
Solo acqua salata dagli occhi chiari.
In bilico come un tuffatore sul trampolino, sopra una piscina vuota.
Le mie parole oscure, criptiche come bugie da non svelare nemmeno a sé stessi, si rincorrono tra fogli di carta e pagine virtuali.
Perdo soldi anche nel sonno e nel sogno.
Bisogno.
Necessità.
Voglia.
Paura.
Questo c’è nel mio vecchio sangue raggrumato, coagulato, seccato.
Lame nel cuore, sette dolori come sette sono i vizi capitali e come sette sono le virtù cardinali.
Sette pugnali, sette giorni a settimana.
Sette notti da passare.
Con gli occhi che non vogliono mai restare chiusi abbastanza.

“Tell me why I’m forced to live in this skin
Tell me why I’m forced to live in this skin
I’m an alien, I’m just an alien, oh
Tell me why I was born to live in this skin
Tell me how I’m supposed to be forgiven
With my hand in the hive and the sun in my eyes, yeah”*2

Cage the Elephant
*1 cigarette daydream
*2 broken boy

Agnus dei

2 Apr

Il sepolcro è vuoto. Il morto è risorto. L’angelo è passato ed ha dato l’annuncio.
«Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona nobis pacem.»
L’agnello di Dio ci ha liberato dal male.
Anche se ormai mangiamo hosomaki e nigiri, e l’abacchio lo lasciamo belare in pace.
Le ore scorrono. C’è chi è convinto di potersi prendere Pescara. Chi ha la sua medicina e le bariste carine che continuano ad aprire tennents davanti a due cugini reduci da un sacco di guerre private.
Bevono così tanto per festeggiare la Pasqua che per il lunedì dell’angelo è davvero un miracolo se riescono ancora a tenersi dritti in piedi.
Il cielo continua ad essere un sudario opprimente.
Le colline non sono in fiore.
Sono verdi e brulle. In un paese dove l’endogamia pare essere di casa.
Dove anche le persone sono verdi e brulle, come le colline.
Uno dei due, il più vecchio, è silenzioso per la maggior parte del tempo.
Un sacco di pensieri. Nessun ripensamento, un sacco di domande senza alcuna risposta, ma quasi zero ripensamenti. Tranne una voglia infinita di sentire musica e tornare alle sue abitudini casalinghe.
Due settimane ancora.
Poi quello che deve succedere succederà.
Una statale. La ss4. Un modo strano di scherzare che fa allentare i freni di una bici elettrica. Che è un modo carino di chiamare un tentato omicidio.
Un cane nero col muso del lupetto della Roma, un paio di ammiccanti bariste, col reggiseno rinforzato, per riempire dei vuoti emozionali.
Giochi di mano, giochi da villano, seduto sul divano con i coglioni in mano.
Gente in grado di passare dal padre di famiglia al fermo in commissariato in due secondi netti. Come l’accelerazione di una Ferrari Roma a otto cilindri gran turismo.
L’opinel in tasca come a tredici anni.
Toccarlo di quando in quando dà quel senso stupido di sicurezza che nessuno può spiegare.
Agnello di Dio che togli i peccati del mondo togli anche le macchie di sangue dai jeans chiari, e donaci la pace.
Parlare al telefono con una voce che tranquillizza e rincuora e un’altra che irretisce ed irrita nel silenzio che riesce a mantenere.
Il più vecchio dei cugini è in guerra col mondo ancora ed ancora, ma non gli darà mai soddisfazione. Mai.
Perché va tutto bene come va. Perché se è così che va è il karma che torna e rimette le cose al posto giusto.
Il sepolcro è vuoto, il Cristo è risorto. E sta scolandosi una tennents anche lui, con la tipa che fa gli occhi dolci e le palle che fanno male
Due cugini ed un Cristo. E un sacco di gente di contorno.
Numeri di telefono in rubrica e domande su domande. Tipo questo numero di chi cazzo sarà mai?
Quella tizia con le tette enormi e il culo basso?
Quella carina con l’accento inascoltabile?
Quello convinto che la malavita si risolva in due battute prese tra romanzo criminale e Suburra?
Gli zingari di Campobasso e le zinne grosse e il culo grasso.
Occhi dolci sul pianeta terra.
Peccato che al cugino più vecchio, come al cavaliere nero, non je devi caca’ er cazzo.
A meno che non sia lui a decidere.
Il miracolo italiano dell’essere silenziosi e fare giusto tre battute in grado di fare ridere anche i sassi. Sempre con la faccia seria e gli occhi tristi di chi sta pensando ad altro.
La statale ss4 e le colline coperte di foschia.
Chi sparisce per due giorni e chi cerca per due giorni un contatto.
Chi pensa solo che forse non doveva lasciare le finestre aperte.
La voce di tutta una vita che rinfranca, come acqua frizzante con l’arsura della sbronza pesante.
Una voce roca e bassa, per la febbre e le sigarette, ma piacevole come olio caldo nelle orecchie quando hai preso troppo freddo e i timpani fanno male.
Cicatrici che cambiano colore, e un sapore così lontano da non ricordarsi nemmeno più che sapore è.
Le mani, i calli, i segni, i tremori.
Tutto fa parte della vita che scorre e che scappa, come una pisciata al mattino presto. Come la voglia di bere la notte tardi.
No no no, you don’t love me and i know now, come diceva quella saggia di Dawn Penn.
Altre voci dal passato, tutti i giorni in linea a raccontare com’è che va la vita ora, un’ora che è iniziato da quando non ci sei più.
E sei la mia coscienza? Domanda Doris a Nemo.
Pete Bondurant e Kemper Boyd sono qui anche loro, col cugino più vecchio.
Quanto è bello, ma sei sicuro che siete parenti?
Pensa che è anche più vecchio di me.
Pensa che è anche più povero di tutti quelli che stanno qui dentro adesso.
Ma non si direbbe. Mai si direbbe. Ma non te lo porterai a casa stasera, nessuna di voi lo farà.
Perché è un tipo fedele?
No perché è uno che non segue mai la linea da seguire.
Quindi, anche se sembra ovvio che è così che deve finire, con lui non finirà mai così.
È strano tuo cugino.
È l’agnello di Dio, però non toglie i peccati del mondo, piuttosto piscia sulla gamba del Signore e poi si getta spontaneo nel fuoco, solo perché gli hai detto di non farlo.
Con tutte le tennents che ha bevuto sarà molto saporito.
Anche se è molto più dolce quando beve succo d’ananas.
Ma sono gioie per poche.
Il sepolcro è vuoto. Il morto è risorto. L’angelo è passato ed ha dato l’annuncio.
«Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona nobis pacem.»
La pioggia è caduta giù, le nuvole erano così basse che hanno baciato le colline.
Le colline erano così stronze che non hanno neanche aperto la bocca.
Vino, sigarette, Molinari, limoncello, cioccolatini, sigarette, cuffie nelle orecchie, musica che scorre come il sangue nelle vene.
Le ore che scivolano veloci come il sangue sulla pelle quando la ferita si apre.
Niente rimarginerà mai il dolore che prova, ma va tutto bene sempre. Va sempre tutto bene. Nessuno deve preoccuparsi di nulla
…Non c’è niente che non vada.
C’è l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, ed un angelo col le ali insanguinate, le penne e le piume strappate, e segni in faccia di chi ha preso tante sassate.
Perché era andato a dire al morto che era tutto uno scherzo e che non era morto davvero.
Pare che il morto non l’abbia presa affatto bene.