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Thriller scandinavo

10 Apr

Mattina presto, apro gli occhi che è ancora buio, ho ancora immagini vaghe di una specie di incubo avuto durante la notte.
Mi sono addormentato presto, più presto del solito, neanche mezzanotte, e il mio cervello sconclusionato mi ha proiettato questo strano thriller scandinavo sulle pareti d’osso del mio cranio compromesso.
Una villetta, una famiglia di gente coi lineamenti slavati, quella serenità apparente che fa presagire che tutto andrà in malora nel giro di poco.
Un padre dall’aria appena severa, una madre con l’occhio spento dal diazepan e dal vino francese, giusto un bicchiere qua e là durante la giornata.
Due figli, una ragazzina sui dieci anni ed un ragazzo sui sedici.
Tutto perfetto. Una casa a due piani. Una cucina spaziosa con l’isola al centro e la calamita al muro per i coltelli. Uno di quei set di lame costosi e ricercati.
Il giardino curato, il cielo nuvoloso che schiaccia gli alberi verdissimi.
Qualche gioco lasciato sull’erba tagliata di fresco. Il mio punto di vista è quello di una macchina da presa, io non sono null’altro che uno sguardo in questa famiglia.
I ragazzi scherzano tra loro, il maschio scende le scale di corsa, la mamma un po’ sorride un po’ protesta sommessamente.
La ragazzina entra ed esce dal giardino, sempre pulendosi le scarpe prima di rientrare in casa.
Il padre adesso ha un’aria minacciosa, ha litigato con la moglie per motivi che non riesco a ricordare. Nel giro di pochissimo uno di quei coltelli viene preso dalla calamita, e piantato nello sterno e nella pancia della donna, che crolla al suolo, morta.
La ragazzina entra in quell’istante in cucina ed il suo sorriso si trasforma in un urlo che fa trasalire il fratello. Suo padre si muove con lentezza esasperante, inesorabile.
È chiaro che si prepara a fare una strage familiare.
Il ragazzo entra in cucina alle spalle del padre, prende anche lui un coltello e lo pianta tra le scapole del padre. Che a sua volta crolla a terra a pancia in giù.
Il fratello afferra la sorella ed escono dalla casa e dal giardino. Sono in mezzo ad un bosco, un sentiero alberato.
Il ragazzo torna in casa e decide di trascinare il cadavere di suo padre in quel bosco.
Senza fatica, come solo in un sogno sarebbe possibile, si trova a trasportare questo peso morto per le caviglie, fino a portarlo tra gli alberi.
E coprirlo con foglie gialle.
Non riesce a farlo scomparire del tutto.
Si sente colpevole di omicidio, è come se avesse dimenticato quello che era successo prima.
Sente solo di dover fuggire assieme a sua sorella.
Una volta occultato il cadavere alla meno peggio rientrano in casa, forse per prendere un po’ di bagaglio, forse per dare modo alla trama di arrivare ad un dunque.
Ai piedi della scala sentono il rumore di un’auto che si ferma fuori casa loro, la ragazzina sbircia dalla bovinda, scostando una tenda.
È la polizia, dice.
Una donna bussa alla porta, è un commissario.
Dietro di lei riappare il padre, che non è morto manco per niente.
Il commissario inizia a domandare cosa sia successo, i ragazzi provano a spiegare concitatamente l’accaduto, tentando di mostrare alla donna il cadavere della madre, in quel momento il padre estrae di nuovo il coltello, e fa un taglio superficiale sul braccio del commissario.
Ci crede ora? Domandano i ragazzi
In quell’istante la donna commissario si gira verso di loro, cambiando completamente espressione.
Ma io vi ho sempre creduto ragazzi, dice.
Ed ora il suo volto placido di donna bionda del nord Europa si trasforma in quello di una feroce donna serpente.
In quel momento i ragazzi comprendono che padre e commissario erano stati d’accordo dall’inizio.
Ecco perché quell’auto era comparsa dal nulla, senza che nessuno avesse potuto chiamare la polizia in alcun modo.
Ora sono chiusi in una trappola a forma di casa, la stessa in cui hanno mosso i primi passi, in cui hanno imparato a pedalare, in cui sono stati coccolati e messi a dormire da piccoli.
Il ragazzo ha un coltello molto affilato.
L’uomo e la donna hanno il sorriso più perfido del mondo sul volto.
I ragazzi sono terrorizzati.
Ed io mi sono svegliato a questo punto.
Nel buio di una mattina che ancora non si è separata dalla notte appena trascorsa, senza sapere se si sono salvati.
Mi sono acceso una sigaretta dietro l’altra dopo avere provato inutilmente a riprendere sonno.
Mi sono chiesto pigramente che cazzo mi possa mai passare per la testa.
Non ne ho idea.
E non ne ho idea in più di un senso.
È uno di quei periodi così fermi e stantii da farmi sentire parcheggiato con le gomme sgonfie in un campo abbandonato.
Con gli stessi stimoli di un’auto arrugginita, le stesse emozioni di un sasso di stagno.
Niente da fare, niente da dire, niente da provare.
Se non fosse per queste scosse che mi danno i sogni, probabilmente penserei di essere morto da un pezzo.
Un coma indotto, un’esperienza di stasi come poche volte ho provato nella vita.
Non ho voglie di alcun genere, alcuno.
Ho fatto esercizi per quasi due anni in ogni condizione, stanco morto dopo aver lavorato, dopo aver bevuto. Mi servivano a scaricare lo stress, a non pensare.
Ora li faccio solo perché altrimenti mi fa male la schiena, non c’è più quella tensione che mi teneva sulla corda, non c’è più quella spinta che avevo bisogno di sopprimere, non c’è più un sacco di roba che è stata qui e che ora, chissà che cazzo di fine ha fatto.
Ed è successo all’improvviso, senza che potessi accorgermene. Di punto in bianco.
Si fa un gran parlare di overthinking ultimamente, con questo termine si indica quell’infinito susseguirsi di pensieri senza alcun senso logico, che logorano mente e corpo e che causano stess ed ansia.
Bene, non ci sono più.
E non so nemmeno se è un bene o un male, è un dato di fatto.
Accettare il proprio destino.
Potrebbe essere questo il caso.