Casa Base

8 Apr

Rumori della notte, auto di passaggio, finestre aperte, aria fresca e voci di ragazze e ragazzi che si godono la primavera.
Mille pensieri, euro col contagocce, appuntamenti inderogabili, attese.
Il sonno lontano, stanotte non bevo, o bevo poco almeno. Il fisico è indebolito, ho ricominciato da poco a fare esercizi e sono molto meno in forma di quando ho smesso.
Non ho più forza, dovrò tornare ad averla.
I muscoli sono indolenziti come fossero anni che non faccio un cazzo.
E saranno forse un paio di mesi, forse qualcosa di più.
Mi sento cadere a pezzi.
È l’età mi dico. Poi mi dico di smetterla di raccontarmi bugie. Poi non so a quale dei due dare retta.
Quest’anno farò cinquantuno anni.
Sono tanti. Sono troppi per uno che sarebbe dovuto essere morto da un pezzo.
Ma ho sempre tradito ogni aspettativa.
È uno dei miei superpoteri.
Tutto il giorno con la musica in cassa, ho spento da poco, prima che qualcuno bussi alle pareti per lamentarsi.
La mia vicina mi guarda male, quella giovane, sua madre mi regala sempre grandi sorrisi.
Una mezza idea del perché ce l’avrei anche, ma me la tengo per me.
Aspetto per andare a letto, che gli occhi siano gonfi e rossi. Odio rigirarmi sul materasso senza riuscire a dormire, è una delle sensazioni più frustranti che si possano provare che mi accompagna da tutta la vita.
Non avere un orario per la sveglia aiuta in questo senso: vuol dire che posso fare tardi quanto voglio, e spesso lo faccio.
Mi infilo a letto quando per alcuni mancano due o tre ore per la sveglia, e cerco di non pensare a quando questa cosa riguardava anche me.
Racconto a tutti che approfitto di questo tempo per rimettere a posto tutti i casini che avrei dovuto sistemare da tempo, e che non ho avuto occasione di fare, perché troppo impegnato sul lavoro.
Ora che sono costretto a questa sosta forzata, assieme ad altre migliaia di lavoratori dello spettacolo, ho finalmente le giornate per rimettere a posto le cose.
Ovviamente non è vero.
Passo il tempo a fissare un cielo che mi cambia sotto gli occhi ad orari diversi.
Quando ero super impegnato al lavoro avevo l’incubo del fine settimana: quei due giorni mi sembravano infiniti, ed il cervello veniva mangiato via a brani da una serie di mostri, pensieri e paranoie, e le sensazioni di immobilità ed impotenza erano le predominanti.
Posso dire di avere superato quella fase.
È talmente da tanto che dura questa stasi che ci ho fatto il callo.
Non ascolto più mostri, non ascolto più pensieri, non ascolto più paure.
Non mi azzarderei a dire che sto guarendo per non fare impiccare analisti e psichiatri, alle travi dei loro studi costosi.
Mi sono semplicemente assuefatto, come il mio solito.
Ho studiato assuefazione e dipendenza e preso un master in resistenza alle sostanze, talmente tanti anni fa, che potrei dare corsi all’università.
Mi sono assuefatto a questo tempo immobile, in cui nulla cambia.
O meglio, se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi, come diceva Tancredi, nipote del principe di Salina nel Gattopardo.
Quindi tutto è cambiato per restare uguale a sé stesso.
Come queste notti quiete, interrotte da voci giovani, da auto in corsa, da canzoni a tutto volume pompate da impianti potenti, da camion della spazzatura e sirene in lontananza.
Come questi giorni bollenti a tratti, in cui a casa ti viene da coprirti e fuori ti strapperesti i vestiti di dosso.
Mi chiudo nella lettura di un vecchio romanzo, letto tante volte e che ancora mi regala sorprese, quell’American Tabloid di James Ellroy, uno dei miei scrittori preferiti da quando ero ragazzo. I suoi vecchi romanzi li amo tutti, fino a “I miei luoghi oscuri” che non ho amato. Da lì in poi ho smesso di leggerlo.
Però ho continuato a rileggere i suoi vecchi libri usciti fino a quel punto, di quando in quando.
Mi piace rileggere più volte lo stesso romanzo o raccolta di racconti. In generale.
Come mi piace rivedere i film.
Come amo riascoltare gli stessi dischi.
È come mettere una tenuta comoda da casa, ed in più ogni volta cogli qualcosa che ti era sfuggito le altre.
Ma credo che la ragione principale sia il senso di sicurezza e conforto che trasmettono.
Queste notti mi faccio accompagnare da Ward Littel, Kemper Boyd e Pete Bondurant fino a che non vince il sonno, e finisco a fare sogni placidi e tranquilli.
Sogno spesso numeri che non gioco mai.
Perché se c’è un vizio che non ho mai preso, è quello di giocare.
Le uniche volte in cui giocavo a carte, a parte le classiche partite a sette e mezzo in famiglia di anni ed anni fa, con dei valori da vincere o perdere, era quando ero rinchiuso al penitenziario di Sulmona e nella casa mandamentale di Altamura.
Poker con sigarette e francobolli.
Credo anche scala quaranta, ma non ci metterei la mano sul fuoco.
Ma è decisamente un vizio da cui mi sono tenuto lontano.
Conoscendomi abbastanza ho sempre saputo che non sarei uscito vivo da un vizio del genere.
Così continuo a sognare numeri. Cifre, tagli di banconote, attrezzeria numero tre, con tanto di chiave fregiata.
In mezzo ai numeri delle altre attrezzerie.
Sono sogni ricchi di particolari, di volti noti e sconosciuti, sogni colorati, più del film che mi capita di guardare mentre mangio qualcosa.
Film che guardo al telefono, senza voglia particolare, solo per farmi tenere compagnia.
Quando il giorno arriva mi lavo, mi vesto e mi sbrigo ad uscire, per camminare al sole, e rigirarmi le immagini e le frasi dei sogni nella testa, che in questo momento mi sembrano quasi più importanti di quelle che sento dire da sveglio dalle altre persone che ho intorno.
Arriverò a capo di questo, capirò cosa sto cercando di dirmi davvero.
Arriverò anche stavolta a casa base.
Perché è sempre andata così, anche quando ero certo di no.

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