L’ultimo quarto d’ora

26 Giu
Pasino

È un annata nera.
Il mio settore è in crisi profonda, molti di noi sono fermi da mesi. I lavori, pochi, sono sottopagati spesso, in ritardo sempre e non garantiscono alcuna continuità.
Quella continuità che garantisce la sopravvivenza, per dire.
Avere molti contatti può essere utile, ma se negli ultimi anni sei stato sempre impegnato su altri progetti, è come se quei contatti non li avessi.
Arrivo sul set in veste di autista/runner di produzione, sono con macchine da presa, poi con i macchinisti.
Conosco molta gente che mi vede, mi saluta e mi chiede.
Lo fai tutto il film?
Chi è lo scenografo?
Sei in preparazione?
Stai sul set?
No
E che fai?
Spiego la situazione guardandomi la punta delle scarpe.
Sarà che anche se non si vede ho comunque una certa età.
Cinquantuno quest’anno, tra qualche mese.
E sento il peso delle cose in modo diverso rispetto a prima, quando potevo dire di essere giovane.
L’esperienza aiuta a non sprecare energie e dosare la forza, trovare la posizione giusta per trasportare materiali pesanti, l’esperienza aiuta a non bruciare troppo in fretta.
Ma appesantisce intimamente in altro modo.
La domanda negli occhi di tutti è sempre la stessa. Finalmente un amico, fotografo di scena, la fa, chiara ed inequivocabile:
-A Cipo’ ma com’è che uno come te se ritrova così?
Avrò mandato a fare in culo qualcuno di troppo importante, dico.
Chi mi conosce da un po’ sa che è perfettamente possibile.
Chi mi ha appena incontrato, e lavora con me da un paio di giorni mi guarda e sorride, dicendo che non sembro proprio il tipo che possa rispondere male.
È vero.
Sembro sempre così disponibile. Taciturno.
Parlo a voce bassa, rispetto al mare di gente che qualunque cosa debba dire la grida.
Solo che anche a me salta la mosca al naso, mi si acciacca la vena, in termini medici.
Iniziano a girarmi i coglioni ad elica, in termini nautici.
E quando accade, accade.
E mi dimentico che il set è sacro e non si alza la voce, mi dimentico che al cinema i gradi e le stellette contano più delle capacità effettive, e mi esprimo.
Senza alcun tipo di remora.
Sono un coglione.
Lo so.
Fatto sta che lo sguardo di molti colleghi con cui ho lavorato in altra veste, mi pesa più dei pesi per bilanciare il Crane.
È uno sguardo in cui mi rifletto nella veste di quello che ormai è spacciato.
Non si uscirà da questa palude.
Non farò mai alcun passo avanti al di fuori di queste sabbie mobili.
Resterò avvolto fino alla vita in questa nebbia in cui accontentarmi di giornate da manovale, runner, carne da macello dell’audiovisivo.
Come avessi iniziato l’altro ieri.
Come se tutti gli anni appena trascorsi fossero stati cancellati di colpo.
Una mia amica di tanto tempo fa diceva che le persone in fondo ricordano l’ultimo quarto d’ora trascorso con te.
Fosse anche che ci hai passato una vita insieme, tutto ciò che resta loro impresso, è quest’ultimo quarto d’ora.
Ed è tristemente vero.
In effetti.
Il mio ultimo quarto d’ora davanti ai loro occhi è stato con me che facevo i blocchi.
Che chiedevo il silenzio tra un ciack e l’altro.
Signori scusate quello è campo, ecco fatevi un po’ indietro per cortesia, verso il craft grazie. Azione.
E morivo dentro un po’ di più ad ogni frase.
Ad ogni sguardo.
E sognavo di dover correre al Pasino per i props della scena 44.
Di dover intervenire sul set per uno spostamento di macchina. Di poter fare il mio lavoro.
Fate un lavoro che amate e non lavorerete un solo giorno della vostra vita.
Ecco, l’avevo interpretato un po’ diversamente in realtà.

Lascia un commento