Archivio | 5:59 PM

C’è poco da fare

3 Giu

Sono stati tempi veloci e lenti insieme. Trenta giorni paiono essere volati, ma mentre eravamo nel pieno delle settimane sembrava che fossimo lì da mesi.
Non ho scritto mai.
Non mi sono mai concesso un solo momento per farlo. Per tirare somme, per mettere la malinconia in forma scritta. Per raccontare troppo dettagliatamente l’avventura che stavamo vivendo. Che è giusto resti avvolta dalla nebbia che l’ha decorata molte volte.
Ho tenuto il pollice lontano dalla tastiera qwerty ed i pensieri lontani dalla testa.
Ho riso e scherzato, mi sono tenuto in disparte al momento giusto e sono stato allegro ed ubriaco insieme agli altri.
Senza crisi, senza scossoni.
Senza pensare al dopo. Vivendo il momento così come viene.
A volte sei tu che mangi l’orso, altre l’orso mangia te.
E lo dice qualcuno molto più saggio di me.
Ora sono qui nel bel mezzo del dopo.
Stessi pensieri di un mese fa. Forse con una diversa intensità. Una frost sulla luce e smorziamo ‘sto riflesso. Un due per uno e togliamo quest’ombra.
Tutto si è ammorbidito.
Nel bene e nel male.
Forse è solo l’effetto del sole e del mare, dei bar e le ore pigre.
Che fatico a togliermi da dosso.
Forse era aspettare l’ora della convocazione sdraiato sulle rocce, su un telo da bagno dell’albergo, a chiacchierare e ridere e decidere se tuffarmi o meno.
Una vacanza da tutto quello che è diventata la routine del disoccupato.
Un lavoro come il mio si può interpretare come tale, a volte.
Muoversi per prendere una birra fuori dagli alberghi, spostarsi in furgone, con la cassa bluetooth appesa in cabina, la musica alternata in base alla compagnia.
Fermarsi dopo il lavoro, sbrigarsi a tornare per vedere questo o quello.
Avere di nuovo da fare, quel da fare senza età, che era lo stesso a vent’anni come a cinquanta.
Sono di nuovo in zona, saluto chi conosco, chiacchiero con perfetti sconosciuti, mi muovo poco. Becco un amico, un’amica mi offre la colazione, intanto cerco di capire cosa ne sarà della mia categoria. Me compreso.
Lavoratori dello spettacolo.
Uno spettacolo di lavoratori.
Abbiamo un senso solo quando una produzione ci offre un contratto.
Per il resto del tempo siamo gente qualsiasi, mascherata da Edgar. Indossiamo l’Edgar abito fino a che non ci arriva il primo o.d.g.
Allora ci sfiliamo con grazia la pelle del tizio qualsiasi che aspetta l’autobus delle tre, e torniamo ad essere cinematografari.
Ci cambia il tono di voce, la postura, si ravviva il tono muscolare. I vestiti ci cadono addosso diversamente. Abbiamo uno scopo.
Siamo improvvisamente l’immagine sulle vecchie magliette panalight, dove quattro uomini cercano di alzare uno stativo con la camera montata, sopra un praticabile di flight case.
Immagine a sua volta rubata al monumento a Iwo Jima.
Dove quattro soldati cercano di innalzare la bandiera.
Ma fino a che non arriva quella chiamata, quel primo o.d.g. siamo nulla mischiato con niente.
E come tali ci sentiamo.
C’è poco da fare.